
Se i Mondiali si tengono in Ruanda, il merito è soprattutto suo. Là lo chiamavano all’americana “Coach”, con la maiuscola, che non si vedeva, ma si sentiva.
Jock Boyer: di Moab, Utah, del 1955, 87 vittorie da dilettante, 49 da professionista, due Giri d’Italia e cinque Tour de France, il primo statunitense a correre (e a concludere) il Tour de France (nel 1981), protagonista anche nell’ultraciclismo, vincitore della Race Across America (nel 1985), dal 2007 al 2017 allenatore e tecnico, direttore sportivo e team manager, coordinatore e regolatore, “Coach” – appunto – di quella straordinaria impresa del Team Rwanda. Costruire una squadra da zero. Zero corridori, zero corse, zero cultura, zero strutture e infrastrutture, zero di zero. Tom Ritchey la mente, Jock Boyer il braccio. E in 10 anni ce l’hanno fatta. Fino a quando il Tour of Rwanda non era più considerato una follia, un’utopia, uno scherzo, ma una gara internazionalmente riconosciuta. E fino a quando il Ruanda non ha conquistato la possibilità di ospitare e organizzare i Mondiali di ciclismo del 2025.
Boyer giunse in Ruanda dopo aver toccato il fondo: l’accusa di molestie a una minorenne, l’ammissione del reato nel 2002, il reato prevedeva fino a 22 anni di prigione, la pena ridotta a cinque anni, poi un anno di detenzione (poi otto mesi, dal 31 ottobre 2002 al 7 luglio 2003 nella Monterey County Jail) e cinque di libertà vigilata. Sfida o redenzione, avventura o riabilitazione, missione o riscatto, o semplicemente una seconda possibilità, quello che Boyer è riuscito a creare in Ruanda è stato tutto questo: un capolavoro che ha ispirato libri, documentari e film, e che può vantare numerosi tentativi di imitazione, tutti naufragati o comunque mai arrivati a quel suo livello. Perché attraverso allenamenti e corse, tabelle e regole, accademie e club, raccolta fondi e materiali, regole e obblighi, Boyer ha calamitato attenzione, acceso speranze, alimentato credibilità.
Di Boyer ho scritto nel mio “Strade nere” (Ediciclo). Un uomo con il suo peccato da scontare (scontato), ma anche da rispettare e ammirare. Lui che per 40 anni non ha toccato alcol ma bevuto acqua alcalinizzata colpita da raggi ultravioletti per rimuovere microbi e non ha mangiato cibo confezionato che non fosse frutta secca: e che da corridore andava a pane e acqua. Lui che porta sempre con sé la Bibbia e prega prima di ogni pasto. Lui che non legge giornali, non ascolta radio, non guarda tv, uniche eccezioni i libri del cristiano evangelista Philip Yancey e il film “Il Gladiatore”. Lui che non assume farmaci contro la malaria perfino in Paesi dove la malaria era la principale causa di morte. Lui che quei ragazzi ruandesi ha valorizzato offrendogli opportunità e cambiandogli la vita.
Jock mi ha aperto le porte della sua casa e quelle dell’Africa Rising Cycling Centre, la sua seconda casa, tutte e due a Musanze. La prima circondata da mura, cancelli e filo spinato con tanto di guardia del corpo. La seconda con strutture all’avanguardia in un’oasi da parco naturale. Poi è tornato negli Stati Uniti: la sua missione, o forse la sua espiazione, era conclusa.
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