SOFFI AL CUORE. 1960, SESSANT'ANNI FA LA TRAGEDIA DI ROGER RIVIERE

STORIA | 10/07/2020 | 08:00
di Gian Paolo Porreca

Il ricordo è talvolta un esercizio narcisistico, ma in alcuni casi si eleva a riguardo nobilmente dovuto alla storia e ai suoi protagonisti, in specie nello sport. E così, oggi 10 luglio 2020, privi di un Tour de France che si correrà per intero (demenzialmente) sotto il sole malvagio di agosto, sentiamo più presente la memoria di quel Tour del 1960, l'edizione che sarebbe stata trionfalmente vinta dall'azzurro Gastone Nencini, e che domenica 10 luglio, alla 14. tappa, avrebbe vissuto il dramma di Roger Riviere, il giovane campione francese, che di Nencini era il più atteso rivale.


Quel giorno, nella discesa del Col du Perjuret, un colle modesto, di quelli che non sanciscono imprese, Riviere, un inseguitore già tre volte iridato in pista e detentore del record dell'ora, poulain fra l'altro di Fausto Coppi, nello sfidare su traiettorie ardite quel Nencini già in maglia gialla, e discesista provetto, sarebbe finito fuori strada, librato in aria da un cordolo sbrecciato, precipitando avvinto alla sua bici, trenta metri in giù, sul greto di pietra di un ruscello.


Quel pomeriggio, la frazione arrivava ad Avignone, due fratture vertebrali, «non sento più le gambe», come diceva atroce al dottor Dumas, la gloria sportiva di Riviere si sarebbe frantumata  per sempre. Di pieno giorno, prima della vuota sera.

E il resto della sua vita, condannato ad una sedia a rotelle e ad una angoscia impropria, lo avrebbe consumato in assurda fretta, per morire a soli 40 anni, cancro alla laringe, nel '76.

Il ricordo del primato e della carezza effimera del successo seppe però donarlo ancora a noi italiani - gli amici di Nencini, al Tour del '60 - dedicandoci il ristorante che provò ad aprire, da infermo, senza fortuna. Lo chiamò  infatti 'Le Vigorelli', come il velodromo magico di Milano della sua stagione di Icaro al sole, per il record dell'ora sancito nel 1958. Un'ora troppo breve, perciò è giusto scandirne i minuti, ce ne fosse uno superstite, e un Pernod da condividere nell’elogio, anche sessanta anni dopo.

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