Accpi: per noi non è giusto firmare la dichiarazione dell'Uci

| 25/06/2007 | 00:00
L’ACCPI (Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani) sta assumendo un ruolo-guida, anche sul piano internazionale, rispetto alle vicende che nelle ultime settimane hanno riguardato il mondo del ciclismo. Il presidente dell’Assocorridori, Amedeo Colombo, fa il punto della situazione. Presidente Colombo, che cosa pensa della lettera sottoscritta dal presidente del Coni, Petrucci, che punta il dito sul tanto bistrattato ciclismo? Penso che lo spirito che anima Petrucci sia anche il nostro: tanto lui quanto i corridori italiani sono in prima linea nella lotta per uno sport pulito. Il metodo, però, conferma l’esistenza di una pressione abnorme sul ciclismo e di una palese discriminazione tra il nostro e gli altri sport. Se pur in presenza di test antidoping negativi si parla genericamente di “valori anomali”, e se queste affermazioni – ad oggi non supportate da alcun elemento oggettivo – riempiono pagine e pagine di giornale, gettando indiscriminatamente discredito sui principali protagonisti dell’ultimo Giro d’Italia, c’è qualcosa che non va. Frattanto l’UCI ha chiesto la disponibilità a sottoscrivere un impegno a non doparsi, rinunciando ad un anno di stipendio in caso venga riscontrata la positività... I corridori, e l’ACCPI in testa, sono i primi a desiderare un normativa che contrasti in modo efficace, serio ed equo il doping affinché il risultato sportivo rispecchi i reali valori in campo e non sia quindi deteriorato dall’utilizzo di sostanze dopanti, che tra l’altro sono anche nocive alla salute degli stessi corridori. E proprio per questo l’ACCPI, assieme al CPA, si è recata ad Aigle presso la sede dell’UCI per proporre al presidente McQuaid le linee che, a nostro avviso, andrebbero seguite nella lotta contro il doping. E quali sono, nel concreto, le proposte che voi avete portato all’attenzione di McQuaid? I punti sono sostanzialmente quattro. Primo: è necessario che l’UCI si riappropri del ruolo e delle prerogative che le sono proprie in materia di giustizia sportiva; poteri e doveri che, a nostro avviso, sono stati in questi ultimi tempi erroneamente delegati alle squadre e agli organizzatori, creando così evidenti iniquità e disparità di trattamento Secondo: è necessario che l’UCI si faccia promotrice di un’iniziativa forte per spingere tutte le federazioni nazionali ad adottare regole e procedure comuni in materia di illeciti disciplinari. Terzo: occorre responsabilizzare maggiormente le squadre - e non parlo solo di quelle Pro Tour - prevedendo sanzioni pecuniarie o interdittive per quei team che non hanno svolto determinate e ben individuate analisi preventive sui loro atleti trovati poi positivi ad un controllo antidoping. Quarto: sarebbe l’ora che i corridori e le relative associazioni venissero consultati prima di adottare decisioni in questioni che vanno poi direttamente a toccare i loro interessi e diritti. Il Presidente McQuaid ha ascoltato queste nostre considerazioni e ci ha promesso che le avrebbe valutate con attenzione. Ebbene, tre giorni dopo, senza dirci niente e senza chiedere prima il nostro parere, se n’è uscito con questa iniziativa a cui noi siamo assolutamente contrari. E perché siete contrari? Due sono le valutazioni da fare. La prima, anche se dal mio punto di vista è meno importante, è di natura giuridica. I legali mi dicono infatti che una simile iniziativa, al di là di alcuni eventuali profili penali di violenza privata che potrebbero sussistere qualora fosse posta come minaccia o obbligo (e a leggere certe dichiarazioni sembrerebbe che l’adesione non sia certo volontaria), è nulla perché contrasta chiaramente con l’art. 3 dell’accordo paritario. Non è certo edificante che l’ UCI si ponga in contrasto con i suoi stessi regolamenti. E l’altra? La seconda, che poi è il vero motivo che ci pone in contrasto con l’UCI, è legata invece a considerazioni di carattere politico-sportivo. Ancora una volta, infatti, l’UCI invece di assumere su di sé la responsabilità di perseguire e colpire chi sbaglia, affida ad altri, ovvero alle squadre (tra l’altro chissà perché solo le Pro Tour e non anche le altre) nonché agli organizzatori il ruolo di giudici cautelari, dandogli il potere di decidere chi far correre e chi no. Si creano, così, evidenti possibilità di disparità di trattamento, disparità che sono sotto gli occhi di tutti: basta vedere ciò che sta accadendo nella cosiddetta Operacion Puerto dove dei più di cinquanta, o forse più di cento corridori che sembrerebbero coinvolti, al momento i provvedimenti disciplinari emessi sono soltanto due, e nei confronti di due corridori italiani. E ciò grazie all’iniziativa del Coni e della Procura sportiva italiana. Se questi sono i risultati, forse sarebbe il caso di prendere atto che occorre cambiare rotta, perseguendo i quattro punti di cui ci siamo fatti portatori nell’incontro di venerdì. Il vostro è dunque un attacco alla politica dell’UCI? No, anzi! Vorrei solo che tutti comprendessero che se si vuole risolvere i problemi occorre spogliarsi dalle ipocrisie e collaborare davvero e realmente tutti insieme. L’UCI deve tornare a fare il suo mestiere ed assumersi le responsabilità per cui è stata creata. Una UCI forte fa bene a tutto il movimento, una UCI debole che si spoglia di poteri e prerogative non fa nient’altro che creare ancora maggior confusione e sbandamenti. Facciamo in modo che la giustizia sportiva sia gestita dagli organi a cui è demandato tale compito e che tutti, e non solo i corridori, si sentano e siano maggiormente responsabilizzati nella lotta contro il doping. Quindi chiederete ai vostri corridori di non firmare? Per noi - spero di essere stato chiaro - non è giusto sottoscrivere quella dichiarazione.
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