MODOLO: SONO PIÙ LIBERO, PUNTO PIÙ IN ALTO

PROFESSIONISTI | 31/03/2018 | 07:07
Il primo urlo di gioia gli si è stretto in gola. Sacha Modolo, con la nuova maglia della Education First - Drapac p/b Cannondale, nella prima tappa della Vuelta a An­da­lucia è stato beffato da Thomas Boudat al fotofinish. Mentre il trentenne veneto sprintava a centro strada e alzava le braccia nel gesto della vittoria, il francese sbucava nell’ombra sulla sinistra della carreggiata e lo bruciava proprio sul filo di lana. Si è rifatto due giorni dopo, quando ha finalmente potuto gu­stare il sapore del successo nella terza tappa della Ruta del Sol.

«Che figuraccia! Mamma mia, è stato brutto. Guardavo sotto il manubrio e lui era tutto sulla sinistra. Non l’ho visto, per questo non ho dato il colpo di reni. Mai mi era capitata una cosa così. Per fortuna mi sono rifatto alla prima occasione utile: lo dovevo alla squadra».

Ad Herrera, 48 ore dopo la “scivolata” in stile Zabel alla Sanremo 2004, si è messo dietro lo spagnolo Barbero e il colombiano Soto con Oscar Gatto che ha chiuso in quarta posizione. La volata è stata disputata da un gruppetto ristretto di specialisti perché il plotone si era spezzato all’ultima curva per la caduta di un paio di corridori. Per Mo­dolo si tratta della quarantaseiesima vittoria in carriera, la prima con il nuo­vo team, ottenuta all’ottavo giorno di corsa.
Professionista dal 2010, nel suo palmares spiccano due tappe al Giro d’Italia, a Jesolo e Lugano 2014. Dopo quattro anni coi Reverberi (prima alla Colnago poi alla Bardiani), quindi altrettanti con Saronni (tre alla Lampre e l’ultimo alla UAE Emirates) aveva detto di aver bisogno di nuovi stimoli. E pare proprio averli trovati.

Partiamo dalle volate in Spagna.
«Glisserei su quella persa. Lo sprint che ho vinto è stato una volata di testa, sono partito ai 180 metri. Non era facile. L’ultimo chilometro era in di­scesa ma il finale tirava al 3%, ho pe­dalato per 10” a 1.100 watt. Stavolta per sicurezza ho festeggiato dopo la linea, non potevo sbagliare. La squadra non mi aveva fatto pesare l’errore, ma dovevo sdebitarmi. Adesso avverto meno stress, la mentalità americana è diversa rispetto alla nostra. In questo gruppo, anche se sei l’ultimo arrivato sei trattato da adulto, da professionista, quindi non vieni controllato, si fi­dano che tu svolga al meglio il tuo lavoro. Posso dirlo, ho ritrovato la serenità che non avevo più da un po’ di tempo».

Come ti trovi nella nuova squadra?
«Per ora bene, avevo bisogno di cambiare ambiente. Per il momento sembra che sia stata la scelta giusta. Nulla da ridire sulle squadre in cui ho militato in passato. Nell’ultimo quadriennio Saronni mi punzecchiava spesso, per spronarmi. Il mio penso di averlo sempre fatto. Ho pagato però che se ne fos­se andato un uomo chiave per me co­me Richeze. Con il solo Ferrari ad aiutarmi, non si potevano fare miracoli. Adesso si sono organizzati meglio per le volate».

Come è avvenuto il contatto con EF?
«La possibilità di correre con questa squadra era nata già durante l’estate: cercavano un velocista ed ero stato contattato perché il management ave­va puntato su di me, poi sembrava un po’ tutto morto perché, per un periodo, quella che allora si chiamava Cannondale sembrava non avere più uno sponsor a disposizione. Quando hanno risolto questi problemi, sono stato subito ricontattato e ho deciso di accettare la proposta, soprattutto per­ché avevo bisogno di nuovi stimoli. Mi hanno scelto perché vogliono essere competitivi nelle tappe dei grandi giri e delle corse di una settimana. Sono stato orgoglioso che mi abbiano cercato e accordarsi è stato facile».
L’impatto con un team straniero in cui sei l’unico corridore italiano come è stato?
«Non abbiamo svolto nessun ritiro pri­ma di gennaio, ho imparato a conoscere le persone per email prima che di persona. I 2-3 giorni iniziali del primo training camp sono stati traumatici per via della lingua, non capivo nulla. Da ignorante, me lo dico da solo, e per pi­gri­zia non ho mai imparato l’inglese. Qui però nessuno mi ha mai isolato. Parlano piano per farsi capire. E, adesso, almeno comprendo. Voglio prendere delle lezioni. Intanto ho adottato un metodo. La sera, a tavola, mi segno le parole che non capisco nelle note dello smarthpone. In camera, prima di andare a dormire, le studio. Il vocabolario mi mancava completamente e così co­mincio a costruirlo».

Ti servirebbe una vacanza studio come quelle organizzate da EF...
«Con lo studio non sono mai andato d’accordo. Oltre all’italiano e al veneto (sorride, ndr) purtroppo non parlo be­ne nessuna lingua. Capisco abbastanza per comprendere quanto si dice in riunione, ma quando australiani e americani dialogano con il loro slang faccio fatica a se­guirli. Non rie­sco ancora ad esprimermi agevolmente, ma sto mi­gliorando. Con i viaggi ho più feeeling. Il posto più bello in cui sono stato? Le Maldive, un paradiso che mi sono goduto con Valentina gli ultimi due inverni. In futuro sogno di andare a Bora Bora ma il viaggio per il momento è proibitivo, ci vogliono 4 giorni ad andare e altrettanti a tornare e noi ciclisti di tempo libero ne abbiamo sempre poco».

Oltre alla maglia, cos’altro hai cambiato?
«Sono tornato ad affidarmi al mio storico preparatore, Roberto Sant. Le squa­dre precedenti non me lo avevano permesso, ma ora ho carta bianca così ho preferito andare sul sicuro. La cosa migliore, almeno per me, è avere qualcuno su cui fare affidamento vicino a casa, quando serve c’è, basta vedersi, non servono chiamate o mail. Mi segue da quando ero junior in maglia Vittorio Veneto CS (la squadra giovanile in cui Sacha è cresciuto, ndr), ha sempre creduto in me, mi capisce al volo, riesce a farmi ragionare anche quando sono ar­rabbiato e sa come motivarmi. Ormai mi conosce quasi meglio di mia mam­ma Sonia e per me, come lei e il resto della mia famiglia, è un vero punto di riferimento. Ho trascorso un buon in­verno, sono stato più attento al mangiare, sono più magretto rispetto a un anno fa, ma non ho stravolto nulla nel­la preparazione o nella dieta. Sono partito un po’ meglio che in passato, ma quasi senza volerlo».

Con quali compagni hai legato maggiormente?
«In realtà con nessuno in particolare perché ad ogni gara finora ho cambiato compagno di stanza. La persona con cui ho passato più tempo è stato Car­mi­ne Magliaro, uno dei due massaggiatori italiani, soprattutto alla prima cor­sa mi ha dato una grossa mano ad integrarmi nel gruppo. Per quanto riguarda il “treno” per le volate, per questo team è qualcosa di nuovo e non avremo un gruppo fisso. Quasi sempre avrò al mio fianco i belgi Tom Van Asbroeck e Sep Vanmarcke ma ho la­vorato già bene anche con Matti Bre­schel, Sebastian Langeveld, Simon Clarke e Mitch Docker».

Per il Fiandre di domani quale sarà il tuo ruolo?
«Lavorerò per Sep Van­marc­ke. Ma se mi trovassi davanti, dovrò essere pronto».

Cosa chiedi a questa stagione?
«Vincere quello che posso, il più possibile. Voglio darci dentro. La squadra ci tiene, mi stanno trattando benissimo, devo solo ricambiare la loro fiducia. Per il Giro d’I­ta­lia, rispetto agli anni scorsi avrò un av­vicinamento diverso, non correrò né in Turchia né in Croazia, per la squadra gareggiavo troppo, quindi dopo il Fian­dre staccherò e forse andrò in ritiro. Non credo in altura perché non l’ho mai fatta e sperimentarla poco prima della corsa rosa sarebbe un azzardo, di certo a luglio, quando avrò un periodo di pausa, andrò a Livigno».

Qual è l’aspetto che ti piace di più e quello che ti piace meno del tuo lavoro?
«Faccio quello che desidero, questo al giorno d’oggi è una fortuna. Noi ciclisti siamo eterni bambini: se da una parte è un vantaggio, dall’altro è un difetto perché la vita reale non la vivi finché smetti. Il ciclismo in questi anni è cambiato, è diventato più stressante, anche nelle corse secondarie ormai si va fortissimo, devi essere sempre pronto, se ti presenti impreparato ti bastonano. An­che il peggior gregario è forte nel ciclismo di oggi, dover ben figurare in ogni corsa è una pressione non da po­co. Per questo ritengo fondamentale avere vicino un nucleo attorno, esterno alla bici, fatto di familiari e amici che quando le cose vanno male ti permette di staccare da tutto».
A dicembre, durante un allenamento eri stato investito da un’auto. Come è finita?
«Ho sporto denuncia per recuperare almeno i soldi della bici, io per fortuna non mi sono fatto quasi niente, e questo se da una parte è un bene dall’altra complica le cose per risolvere la questione, perché in Italia per avere un risarcimento devi essere quasi morto. L’automobilista che mi ha tamponato se la caverà con poco, la polizia sta pro­seguendo la causa nei suoi confronti per omissione di soccorso visto che dopo l’incidente mi ha riso in faccia ed è scappato senza verificare come stessi. Allenarsi per strada è diventato davvero rischioso e di anno in anno la situazione è sempre peggio. Chi è al volante è regolarmente distratto, a causa so­prattutto dei telefonini. Non guarda la strada. C’è da aver paura».

Nel cassetto dei sogni di Sacha Modolo cosa c’è?
«Tutti dicono che ho un bel motore, è vero. Però le grandi corse non le ho mai conquistate. Qualcuno dice che mi sottovaluto, non lo so. Ho iniziato l’anno bene, vincendo, ma i veri esami sa­ranno più avanti. Gli anni passano in fretta, vorrei conquistare almeno una classica, se non arriva la vittoria mi ac­contenterei anche di un bel podio. Al Fiandre dell’anno scorso per la prima volta ho dimostrato di poter far qualcosa di veramente buono in una corsa che conta, considero quel piazzamento un punto di partenza per fare meglio».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di marzo
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