PROFESSIONISTI | 21/11/2017 | 12:00 Ha sentito cos’ha detto Valentino Rossi? Che l’idea di smettere gli fa paura. «Si può capire. E’ chiaro che quando sei abituato a competere ad altissimi livelli, a metterti continuamente in gioco e spesso a vincere, quando tutto questo non c’è più può anche mancarti».
Pensa che a Vincenzo Nibali un giorno mancherà il ciclismo? «Non lo so, può anche darsi di no. Dipende come arrivi a quel momento. Può essere anche una liberazione. Io per ora mi diverto, vorrei godermi la mia maturità. Poi è chiaro che non tutte le stagioni sono uguali, e non tutte sono buone».
L’ultima è stata buona, chiusa in crescendo. «Sono già proiettato alla prossima, anche perché quest’anno non ho fatto vacanze. I tempi morti sono sempre più ridotti, e io li ho usati per togliermi la placca dalla clavicola e per occuparmi della nuova casa. Siamo in pieno trasloco. Poi il 7 dicembre comincia il primo ritiro, in Croazia. E il 21 gennaio debutto in Argentina, alla Vuelta a San Juan».
Il resto della stagione è ancora da definire. «Una certezza per ora sono le classiche: Amstel, Freccia e Liegi. Fra Giro e Tour decideremo dopo aver visto il percorso del Giro. Non nascondo che ho voglia di tornare al Tour. Ma anche il Giro in Sicilia sarebbe un’occasione da non perdere».
Di sicuro c’è anche la Vuelta, subito prima del Mondiale di Innsbruck. «Troverò il tempo anche per andare a vedere il percorso mondiale. Liegi e Mondiale sono due obiettivi, non l’ho mai nascosto».
Il Tour assomiglia un po’ a quello che ha vinto. «In parte sì, ma ci sono anche un po’ di cose nuove. Intanto il pavè è molto di più. E poi c’è quella tappa di 65 chilometri con tre salite una dopo l’altra che è molto impegnativa, di difficile gestione: favorisce gli attacchi, può anche scombussolare tutto».
Il giorno dell’arrivo a Roubaix ci sarà anche la finale dei Mondiali di calcio. Senza l’Italia. «I problemi ci sono un po’ in tutti gli sport, anzi in tutte le grandi cose. Il vantaggio è che quando sei a terra puoi soltanto risalire. Capire dov’è l’errore e rimediare».
Il ciclismo italiano a che punto è? «Mi viene da dire stabile, fermo da qualche anno, senza grandi novità. Ma così mi dimenticherei di Moscon: ha già fatto vedere buone cose, arriveranno anche i risultati».
A 33 anni si sente più maturo, esperto o vecchio? «Credo che un corridore raggiunga la forza maggiore attorno ai trent’anni. La maturità ha i suoi aspetti positivi».
Si parla molto di cambiare il ciclismo per renderlo più spettacolare. Le tappe corte le piacciono? «Non sono una novità in assoluto. E non ne abuserei: una su tre settimane può bastare».
L’idea (di Cassani) di togliere le cronometro le piace? «Un conto è mettere una crono da sessanta, o addirittura cento chilometri, un conto è toglierle del tutto. Come specialità dovrebbe rimanere, nei grandi giri c’è tutto: pianura, salita, discesa, terreno per gli sprint, è giusto che ci siano anche le crono. Vince il più completo».
Si è parlato di grandi giri ridotti a due settimane. «Questo non è giusto, così si snatura il ciclismo. Nella terza settimana viene fuori il fondista, il corridore che ha doti di recupero e di resistenza. E poi riducendo il numero delle tappe sarebbero molto meno le possibilità di vincere una tappa, non tutti avrebbero spazio per provarci».
Come cambierebbe i grandi giri allora? «Penso che aver ridotto il numero dei corridori al via sia sufficiente. Io quest’anno ho già fatto le prove: siamo rimasti con un uomo in meno subito sia al Giro, sia alla Vuelta...».
Se ripensa al piccolo Enzo che andava in bici sulle salite vicino a Messina con i suoi amici e i suoi cugini, che cosa vede? Ha ottenuto tutto quello che sognava? «Parlando di corse, quasi tutto, o addirittura di più. Più o meno. La Liegi non l’ho ancora vinta. L’Olimpiade mi è rimasta qui. E poi c’è il Mondiale».
C’è tempo. «Ancora un po’, sì».
Alessandra Giardini, dal Corriere dello Sport - Stadio
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