L'ORA DEL PASTO. SALINA, IL FELICE

STORIA | 06/11/2017 | 07:51
Se di tutti i giorni, un solo giorno, e se di tutte le corse, una sola corsa, e se di tutte le avventure, una sola avventura, allora il 24 aprile 1969, seconda tappa della Vuelta, la Badajoz-Caceres. “Pioggia. Pericoli. Gruppo compatto. Non lo avrei mai detto. Perché me ne stavo lì tranquillo, contento di arrivare, quando ai -4 al traguardo Pietro Tamiazzo, mio compagno di squadra nella Max Meyer, mi disse di mettermi alla sua ruota, ché mi avrebbe portato davanti. Arrivai davanti che mancavano 1,5 al traguardo. A -1 c’era una zampellotto. Ci provai: scattai, feci il buco, dietro si guardavano in faccia, tira-tu-che-tiro-io, nessuno tirava e intanto io tiravo diritto. Vinsi a braccia alzate, da solo, per distacco”. Tre secondi sui velocisti: secondo il belga Steegmans, terzo l’olandese Bucacki, quarto Sgarbozza, quinto un altro belga, Sels.

Felice Salina: mai così felice come quel giorno, in quella corsa. “Avevo 22 anni, ero neoprofessionista, e di tutti i neoprofessionisti, addirittura un’ottantina dopo il blocco per l’Olimpiade di Città del Messico, fui il primo a vincere”. Fu però anche l’unica vittoria della sua carriera tra i “pro”: “Soltanto due anni. Il 1969 nella Max Meyer, direttore sportivo Gastone Nencini, capitano Claudio Michelotto, il 1970 nella Sagit, direttore sportivo Ludovico Lissoni, capitano nessuno, ognuno per il proprio destino”.

Il suo destino sembrava diverso: “Casa a Pioltello, alle porte di Milano. Papà muratore, che morì quando avevo 20 anni, mamma impiegata comunale, in cucina, all’Olgettina. Quinta elementare poi a lavorare, a Milano, in una cantina dalle parti di via Gran Sasso. A 14 anni assunto regolare. Il lavoro di una vita”. Se non ci fosse stata la bici. “A 12 anni. Regalo del papà. Comprata alla Bianchi di via Porpora, a Milano. Fuori misura. Ma fa niente”. In bici da casa alla cantina e dalla cantina a casa: “Quindici chilometri ad andare e 15 a tornare, d’estate. D’inverno in bus”.

Ma la scintilla aveva provocato un incendio: “Prima corsa a 16 anni con la Europhon di Romano Ferri. Primo piazzamento alla terza o quarta corsa, vinse Paolo Guerciotti, io arrivai quarto. Prima vittoria alla fine dell’anno, a Carugate, da esordiente. Tre vittorie il primo anno da esordiente, 10 il secondo, con un terzo posto al campionato italiano, sette vittorie il primo anno da allievo, compreso il campionato lombardo, secondo fu Guanfranco Bonera, poi campione di due ruote ma a motore, motociclismo, 10 il secondo anno, compreso il campionato lombardo, e stavolta secondo fu Marcello Bergamo, quindi dilettante, due anni nella Excelsior con sette vittorie, o forse di più, un anno nel Cavallino Rosso con nove vittorie, fra cui la Milano-Asti, il Giro del Sestriere e il Gran premio Crocetta a Bologna. ‘Questo – diceva di me Ettore Milano, angelo custode di Fausto Coppi e mio direttore sportivo nel Cavallino Rosso – è il corridore più intelligente che abbia mai avuto’. Ma l’intelligenza non basta, ci vuole anche la salute”.

Salina perse la salute al campionato italiano: “Dopo la vittoria alla Vuelta, al Giro d’Italia feci un quarto a Pavia, un sesto a San Pellegrino e un nono a Follonica, poi un terzo al Gran premio di Tarquinia. Al Tricolore, il Giro della provincia di Reggio Calabria, sul Sant’Elia ebbi delle fitte, fui operato all’appendice, ma sotto sforzo il dolore rimaneva. E in corsa si è sempre sotto sforzo. Non fui più quello di prima”.

Che peccato: “Ero ‘velocino’, tenevo sulle salite brevi, mi bastava fare uno o due scatti per entrare nella fuga giusta”. Che rimpianto: “La Milano-Sanremo del 1969, davanti una fuga di cinque o sei, dietro io e Rolf Wolfshohl, se il tedesco mi avesse dato un paio di cambi li avremmo ripresi, invece sul Poggio fummo noi a essere ripresi, e allora mollai”. Che brividi: “Le volate di gruppo mi facevano paura, quelli erano pirati, e si correva senza casco”. Che occasioni: “L’unica volta in Nazionale, da dilettante, per il Giro dell’Ungheria, ma la corsa venne annullata perché il Paese era stato invaso dai carrarmati russi”. Che stress: “Rudi Altig sbagliò curva e finimmo su un prato, tutti e due”. E che storia: “Giro d’Italia 1970. Il primo era Eddy Merckx, l’ultimo io. I giornalisti volevano che facessimo un po’ di cinema: levare la maglia rosa a Merckx e farla indossare a me, la proposta fu bocciata a metà, Merckx non si tolse la maglia rosa però io ne indossai un’altra, che però dovetti restituire, e comunque infine mi ritirai”. Dal Giro e dal ciclismo.

Salina ricominciò da dove aveva smesso: “Tappezziere, in proprio, fino alla pensione”. A 71 anni va ancora in bici: “Sette-ottomila km l’anno. Ho una Daccordi, in acciaio, 18 anni di età, 13-14 chili di peso. Vado nella Bergamasca, nel Comasco, sulla Valcava. Da solo o con altri. Ma se da professionista preferivo stare più davanti che dietro, un po’ di paura mi è rimasta addosso”. Però una volta l’anno si ritrova in mezzo: “In mezzo agli amici, ai vecchi corridori, capitani e gregari, ormai i gradi non contano più”.

Marco Pastonesi
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