AAA TALENTI ITALIANI CERCANSI

PROFESSIONISTI | 22/06/2017 | 07:11
Da che punto guardi il mondo, tutto dipende. Anche se l’oggettività è fredda come un pa­vimento d’inverno: il ciclismo italiano è rimasto a terra. Non è tanto, o non solo, il simbolismo del Giro 100, che fa raggelare ancor di più gli entusiasmi di chi guarda ai numeri, alla matematica, e vede la quasi assenza di traguardi tagliati da ruote tricolori. Le motivazioni sono differenti, complicate o semplici: dipende, appunto, dalla sensibilità di chi guarda al bicchiere mezzo vuoto o nota l’altra metà. In questo, a dire il vero, resta in minoranza Orlando Maini, direttore sportivo della UAE Emirates: «Perché sono un ottimista di natura e cerco sempre di vedere il meglio: per questo dico che sì, l’insuccesso del ciclismo italiano a questo Giro c’è stato, ma non deve es­sere considerato una catastrofe. Anche perché stanno crescendo tanti giovani interessanti e altri Paesi, come di re­cen­te la Francia, hanno avuto periodi in cui non si “bollava” neanche al Tour. Ora si è mosso qualcosa pure lì. E poi va ricordato che in questo Giro, quando i corridori italiani hanno perso lo hanno fatto da gente di valore, sia in volata che in salita. Il nostro è un movimento che sta tornando a crescere e secondo me ci sono giovani di qualità, anche se magari non tutti hanno potuto partecipare alla corsa rosa».

Maini è nello stesso treno di Stefano Zanatta della Bardiani Csf, che le ruote italiane le vede comunque lanciate ver­so il successo: «Sempli­cemente tanti corridori italiani di valore non sono arrivati al Giro nelle condizioni migliori. Altri, invece, sono rimasti a disposizione dei rispettivi capitani, senza ave­re la possibilità di mettersi in mostra. Insomma, io non ne farei un dramma. Certo, resta il fatto che tra se i dilettanti si arriva a vincere molto, si incrementano le aspettative. Che nel passaggio al professionismo vengono poi spesso disilluse. Anche perché ci si confronta sempre più con tante nazioni che han­no corridori con tanta voglia di emergere».

Claudio “Coco” Cozzi, che nel suo Team Katusha Alpecin il Giro l’ha corso senza corridori italiani, può permettersi un’analisi ancora più distaccata: «Il problema di fondo è che di squadre, in Italia, non ce ne sono più. Pos­sia­mo lavorare bene nel dilettantismo, come mi sembra già si faccia, ma poi quelli che passano nel professionismo non sono molti. Anzi. Non c’è spazio per tutti. E questo suggerisce che si dovrebbe riuscire a ricreare i vivai e sperare in nuove squadre di World Tour italiane. Un ruolo importante devono averlo le Continental, per permettere ai ragazzi di crescere con la mentalità giusta per affacciarsi tra i prof. Gli esempi ci sono e penso ai Rever­beri, a Guercilena, a Scinto che si dà da fare, a Savio. Ma resta il fatto che ci manca una squadra di livello top e non bisogna aver paura di dire che in questo momento, tra le squadre del ciclismo che conta, l’Italia è il terzo mondo».

«Non nascondiamoci dietro a un dito», gli fa eco un grande ex diesse come Gian­luigi Stanga. «Stiamo attraversando un periodo di crisi sia a livello di corridori che di organizzatori, oltre che di squadre. Una volta al Giro c’erano 120 italiani, ora solo una quarantina. Ma quel che è peggio è che credo sia molto difficile invertire la rotta, se non cambierà la politica sportiva dell’Uci, tutta improntata verso la globalizzazione. Certo, un giovane di qualità potrà sempre emergere, perché un minimo movimento di base continua a esserci». Il quadro che Stanga dipinge, però, è ancora più asciutto e ruvido di quel che può apparire a un primo sguardo. «Non facciamone drammi, però. Per un semplice motivo: è da inizio stagione, anzi da qualche anno ormai, che la situazione è questa. Quindi non c’è da stupirsene, non è una novità. Semmai sarebbe opportuno ragionare su cosa fare e capire se qualcosa si possa effettivamente fare. A mio modo di vedere, se la gestione della federazione internazionale continua a essere questa, non ci sono tante vie di uscita. Si corre dalla Penisola arabica alla Cina, dal Su­damerica all’Australia, con calendari che non hanno ragione di esistere e che non servono a niente, perché in fondo sappiamo quali sono le gare che contano…».

Altrettanto spigolosa, pur da differenti prospettive, è la pennellata di un’altra icona del ciclismo degli ultimi 40 anni, come Davide Boifava: «La crisi del ciclismo italiano all’ultimo Giro può sinteticamente essere ricondotta all’assenza di corridori importanti, come Sonny Colbrelli, Diego Ulissi, Elia Viviani o Fabio Felline. Ma è op­por­tuno allargare il discorso ai budget stratosferici che condizionano i top team di oggi, spesso fuori portata dalle realtà italiane. E poi, anche se so di at­tirarmi le critiche di qualche direttore sportivo più giovane, dico anche un’altra cosa: serve dare più spazio alla fantasia dei corridori, basta con questi atleti telecomandati con radioline e mi­su­ratori di potenza. Ci si deve ricordare dello spettacolo, di chi guarda a questo ciclismo». Boifava spara qualche cartuccia anche in direzione delle Con­tinental, «che devono essere fucina per le squadre professioniste, ma troppo spesso sono in sofferenza. Certo che è bello vincere anche 50 gare l’anno, ma occorre costruire corridori, non vittorie. Queste squadre devono sottostare agli stessi regolamenti delle World Tour, ma anche essere invitate a più gare, permettendo ai loro ragazzi di misurarsi con i migliori. Anche perché, spesso, ci sono squadre con un numero spropositato di atleti». Niente ipocrisie, però: «Sento le critiche a Mauro Vegni per la scelta degli inviti al Giro, ma non dimentichiamoci che lui fa le­git­timamente gli interessi dell’azienda per cui lavora. Il problema, semmai, è un po’ di tutto il sistema. Una volta c’erano 25 o 30 corse, nel nostro Paese. Ora molte di queste sono sparite».

La mondializzazione del ciclismo e quel principio di sussidiarietà sportiva che viene meno è un concetto caro an­che a Luca Scinto della Wilier Trie­sti­na Selle Italia: «Perché il confronto è inevitabilmente più ampio e ci si deve mi­surare con corridori di tutto il mondo. Non siamo più in una dimensione europea del ci­clismo, ormai è uno sport globale. I giovani bravi e capaci ci sono, noi stessi durante il Giro abbiamo sfiorato un paio di volte la vittoria con Jakub Ma­reczko. Insomma, i ciclisti di talento li abbiamo, semmai paghiamo il fatto di non avere team di World Tour che puntino a far classifica. Questo costringe gli italiani a migrare spesso in squadre straniere e a trovarsi costretti a mettersi a disposizione di altri leader».

«E non dimentichiamoci che il livello è molto cresciuto, negli ultimi anni. Lo dico io che nelle passate sei edizioni l’ho vinto due volte», incalza Giuseppe Marti­nelli, uno che ha firmato i ca­polavori di Vincenzo Nibali e Fabio Aru a Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta a Espana. «In questa edizione c’erano al­meno una decina di corridori che ambivano al podio. Prima non era così. Vale l’esempio della Fdj che, fino a non molto tempo fa, come obiettivo aveva semplicemente il venire al Giro. Quest’anno invece è venuta per vincerlo con Thibaut Pinot. O la Mo­vistar, che lo scorso anno si è presentata al via con Andrey Ama­dor, ma quest’anno ha portato Nairo Quintana. Il problema della mancanza di squadre italiane World Tour diminuisce la possibilità di avere corridori italiani che possano trovarsi lì a giocarsi le proprie chance. Spesso, correndo per squadre straniere, sono costretti a lavorare per altri». Martinelli dà una chiave di lettura differente: se i numeri di vittoria di tappa dicono che il ciclismo italiano ha perso, a vincere è stato proprio il Giro d’Italia. «Perché lo spettacolo è stato davvero incredibile, con una battaglia bellissima e costante. Per vincere questo Giro è stato necessario superare avversari di grande qualità».

Corridori di qualità, forse però non sempre dotati del coraggio necessario. A esserne convinto un altro grande ex come Giancarlo Ferretti: «Vincenzo Ni­­bali a parte, spesso è mancata l’iniziativa. Mi sarebbe piaciuto vedere Gianni Moscon. Mancava Sonny Col­brelli, che qualche tappa avrebbe potuto farla sua. Ma più in generale è proprio il coraggio che a volte è venuto a man­care ad alcuni ragazzi. Quan­­­do avevo Ales­sandro Pe­tacchi, non occorreva mo­ti­varlo. Capi­ta­va che magari, dopo 4 vittorie, io non mi accontentassi e gli chiedessi di cercare di vincere ancora. Ma questo è un altro discorso. Poi, chiaro, le mo­tivazioni sono sì importanti, ma se un ragazzo ha motivazioni e mezzi atletici non adeguati, il risultato non cambia. Mi piace Nibali perché è un attaccante, ma giudico positivo anche il Giro di Giovanni Visconti, a cui è mancata so­lo un po’ di fortuna».

«Però l’analisi dei corridori in gruppo è una cosa», replica Maximilian Scian­dri, della Bmc, «un’altra lo stato di sa­lute del ciclismo italiano. Ne parlai già anni fa a Davide Cassani e gli dissi che il futuro è dietro, non davanti. I ragazzi che passano nel professionismo spesso arrivano in squadre che non hanno tempo di aspettarli. Soprattutto quelle con grandi budget. Esattamente come le stesse squadre dilettantistiche che vogliono vincere subito, magari costrette anche dalla ca­renza di soldi. Come commissario tecnico della Nazionale inglese, non ho dovuto affrontare problematiche legate alla mancanza di sponsor e ho potuto badare allo sviluppo del corridore. Con­cet­to che è sempre più raro. Con Cassani abbiamo una condivisione di idee, in tal proposito. Ce la sta mettendo tutta, ma ci vuole tempo. Le squadre presenti al Gi­ro hanno fatto il possibile e la Bar­diani Csf ha vissuto una fase iniziale difficile, con la doppia esclusione di Pirazzi e Ruffoni. Inevi­tabilmente non è facile tenere alto il morale, in quelle circostanze. Mi aspettavo di più da Sacha Mo­dolo, che però non era al meglio. E Visconti ha cominciato a far bene quando, nell’ultima settimana, forse il percorso era meno adatto alle sue peculiarità».

«L’approccio deve essere costruttivo», spiega il commissario tecnico della Nazionale, Davide Cassani. «Partiamo da un dato: lo scorso anno al Giro d’Italia si sono contate 6 vittorie tricolori: due con Ulissi, una con Trentin, Nibali, Ciccone e Brambilla. Certi corridori che potevano vincere, al Giro 100 non hanno preso parte. Poi, certo, stiamo vivendo un momento particolare, con pochi corridori da corse di un giorno. Serve far crescere i giovani nel modo giusto, anche se in Italia non ci sono quasi più corse a tappe. Il calendario purtroppo è ridotto all’osso e il Giro a volte diventa l’unica corsa di livello. Senza corse di livello, anche la qualità delle prestazioni si abbassa. Non si può chiedere a un ragazzo di passare nel professionismo senza es­sersi misurato con gare adeguate: sa­rebbe come pensare di portare un bambino dall’asilo alle medie senza passare dalle scuole elementari. La riproposizione del Giro baby è un buon segnale. E con la Nazionale stiamo cercando di aiutare i giovani, ci sono corridori che stanno emergendo adesso. Occorre lavorare anche con i direttori sportivi per cercare di alzare il livello. Quasi tutti hanno capito che il ciclismo è cambiato, anche se qualcuno resta an­cora convinto che la pista faccia male. Ecco, bisogna lottare anche contro cer­te ideologie legate ad un ciclismo di qualche anno fa».

Stefano Arosio, da tuttoBICI di giugno
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