Inviati, allora sì che era avventura
di Gian Paolo Ormezzano
In questi giorni un giornalista molto bravo ed attento e onesto mi ha chiesto se davvero, ai tempi dei tempi, cioè ai miei tempi, le spedizioni dei giornalisti al seguito dei grandi Giri, cioè Italia e Francia, erano autentiche crociate, con tanto di preparazione paramilitare e di professione di fede. Ho risposto di sì e ho cercato di addentrarmi in una descrizione, che ora tento di mettere per iscritto: considerato infatti l’interesse ad essa portato da quel giornalista, che stimo, credo che la descrizione stessa sia foriera (orrendo aggettivo, però regge bene in questa circostanza) di informazioni persino divertenti ai lettori, molti dei quali in fondo hanno un’età che ha consentito loro di leggere le cronache ciclistiche alle quali mi riferisco, e che datano dalla fine degli anni cinquanta.
L’operazione, intitolata al Giro o al Tour, spesso con le due corse legate da un enunciatissimo programma di brevi ferie fra una e l’altra, cominciava quando veniva reso noto il percorso della manifestazione. I giornalisti che sapevano per tempo di dover seguire il ciclismo, per una scelta di carriera o per designazione straordinaria, avviavano immediatamente il meccanismo delle prenotazioni alberghiere, che allora erano curate direttamente e gelosamente dagli interessati, senza mediazioni di segreterie o di agenzie di viaggi. C’era un indirizzario di alberghi di fiducia, si mettevano in nota le telefonate (non esisteva la teleselezione) e si chiedeva al resto della redazione di non essere disturbati per un qualche tempo, immane essendo il lavoro da svolgere. Qualcuno aveva anche la raffinatezza di prenotare cene ai ristoranti, quando non addirittura pranzi in corsa, presso trattorie amiche, in genere proprio lì, sulla strada della tappa. Quando le attese telefoniche erano troppo lunghe si optava per il telegramma, non senza aver fatto sapere pubblicamente che la situazione si stava ingarbugliando pericolosamente. Continue erano le sue consultazioni con l’autista, che veniva sottoposto a crudeli domande sulle medie e sulle scorciatoie, anche se era un esordiente, specialmente se era un esordiente.
In genere si poteva contare su un paio di mesi per arrivare al Giro, quattro o anche più per arrivare al Tour, di regola annunciato nel percorso con grosso anticipo. Ma il giornalista specializzato in ciclismo diceva che il tempo era sempre pochissimo, andava in tilt ed era completamente perduto per il resto del lavoro. I colleghi d’altronde lo capivano, gli chiedevano «sei quasi pronto per il Giro?», aspettando non tanto una risposta quanto un sospiro. Il giornalista non specializzato ma per quell’anno ammesso alla Grande Prova, di solito un giovane di belle speranze, veniva vessato dal Giornalista Specializzato, che gli dipingeva il Giro come un rosario di tremende difficoltà, e gli rimproverava la benché minima mancanza di concentrazione.
Se si trattava del Tour, il Giornalista Specializzato arrivava a invitare il Giovane Rampante a fare testamento prima di partire, e comunque a non sbagliare guardaroba, il Tour non perdonava gli ignoranti. A proposito del quale guardaroba però non forniva consigli, al massimo suggerimenti velati: ad esempio, anche se faceva un caldo atroce, nei giorni immediatamente precedenti alla partenza lo Specializzato si calzava in testa un basco scuro, pirenaico, e si avvolgeva il collo in un foulard di gigilò di Pigalle. Chi voleva, poteva, sapeva capire, capiva.
Grande preparazione che arrivava, nel caso del Tour, alla programmazione dettagliata del viaggio di ritorno, da Parigi all’Italia, non mai il lunedì, ma il martedì, dopo un giorno di decompressione nella Ville Lumière. Non c’erano autostrade, andando verso l’Italia si poteva sostare a Chambéry, in un ristorante ovviamente tipico, a patto però di lasciare Parigi all’alba. La redazione tutta aveva un enorme rispetto per i partenti. Il Giro e il Tour erano pensati come impegni gravosissimi, migliaia di chilometri senza mai perdere di vista i corridori, saghe e sagre del panino, notti da suiveur parlando di ciclismo nelle piazzette d’Italia o di Francia, sempre nel gran freddo o nel gran caldo e con addosso gli indumenti sbagliati, e dopo una giornata di spaventoso lavoro ed una mangiata straordinaria ma meritatissima. Nei giorni immediatamente precedenti e seguenti alle prove gli inviati speciali erano considerati personaggi di cristallo, splendidi e preziosi, da amare e da rispettare, soprattutto da non disturbare. Men che mai con richieste di esame speciale, personale degli avvenimenti, in chiave di previsione o di commento. Il Giornalista Specializzato (il Giovane Rampante non aveva il diritto di parlare: lui stava per fare o aveva fatto una preziosa esperienza, doveva limitarsi a biascicare preghiere onde ringraziare gli dèi del giornalismo della fortuna arrivatagli addosso) emetteva scocciato alcuni fonemi che abbandonava all’altrui interpretazione.
Non oso dire che erano tempi belli, peccherei di nepotismo verso i miei tempi. Mi permetto di dire che erano tempi diversi. Durarono sino alla fine degli anni sessanta, sullo slancio del Tour 1965 vinto da Gimondi. Erano cominciati chissà quando, con la mia testimonianza personale ormai vecchia di quasi mezzo secolo - frequento una redazione dal 1953 - mi sento già oberatissimo di memorie anche pesanti, e investito di un ruolo da testimone pericolosamente vicino a quello del vecchietto che scatarra ricordi nel saloon del paesino in pieno Far West: tutti ridono di lui, ma lui parla, e loro ascoltano. Se siete arrivati sin qui, avete fatto il vostro tenero dovere di lettori-cowboys.
Gian Paolo Ormezzano,
editorialista di “Tuttosport”
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