Provo a regalarmi un viaggetto nella memoria mia e nelle memorie del mio ciclismo, però cercando questa volta agganci personali assai, e lasciandomi visitare da cosine speciali. Un gioco per far cucinare con speziatura ciò che comunque in me è sempre vivo. Io cominciandolo sono sicuro di divertirmi, anche se so che comunque patirò nostalgie sottili, leggere ma sempre importanti e corrosive.
Era il mio primo Giro d’Italia, correva eccome l’anno 1959, prima tappa Milano-Salsomaggiore, stavo in auto con Felice Borel, noto nel grande calcio come Borel II bianconero e azzurro e soprannominato Farfallino. Dirigeva un settimanale, Il Campione, che ebbe via intensa e breve, con poca fortuna. Affittò un posto sulla vettura, che lui stesso guidava, a Tuttosport, giornale per cui io ero il quarto nonché ultimo inviato, non sistemabile nell’auto ufficiale da tre posti più autista. Eravamo amici, diventammo quasi fratelli. Prima maglia rosa a Van Looy, il belga pigliatutto, quella sera nella località termale mangiammo, ricordo, in un ristorante che aveva un nome russo. Primo mio pasto vero da suiveur, a mezzogiorno erano stati panini. Mi divorai un pollo arrosto intero, Borel lo raccontò subito a tutti. Il giorno dopo si rimaneva a Salsomaggiore, per una tappa in circuito, e mi contenni.
Sempre quel Giro. Da novellino cercavo amici, annotavo indirizzi. Ricordo Learco Guerra, il grande ex che stava su un’ammiraglia. In corsa, le nostre auto a fianco a fianco, gli chiesi dove abitava. Milano, mi disse. La via? Rumori assortititi, non capivo la risposta, mi sembrava via Ostenda. Lui urlava per precisare, sentii qualcosa in padano come “Ustenda, il pueta”, era Stendhal, evviva.
Il mio primo Tour de France, anno 1960. In auto con Ruggero Radice, un reporter mitico, firmava anche Raro (RAdice ROger, era italianissimo ma nato casualmente in Francia e adoratore della lingua di Molière). Amico di mio padre. Ruggente con tanti, gentile e paterno non con me. La corsa andò bene per noi italiani, si vinceva molto, Gastone Nencini addirittura correva per la maglia gialla, che a Parigi fu definitivamente sua. Io scrivevo cosine di varietà, il giornale mi dava la massima libertà, pur di riempire le pagine, e inoltre coprivo le interviste, Mario Fossati, collaboratore segreto perché stava in un altro giornale, teneva con pseudonimo una sorta di diario di Alfredo Binda, il commissario tecnico della Nazionale italiana. A Bordeaux arrivò, attesissimo, il pacco dei giornali italiani di molti giorni, Raro prese a sfogliare il malloppone dei Tuttosport, lesse cosa scrivevo di futile, leggero, magari anche goliardico, comunque secondo lui blasfemo verso la sacralità del Tour, si arrabbiò un bel po’, io sprofondai nell’imbarazzo, nella tristezza, e ci restai a lungo.
Una Parigi-Roubaix, non so di quale anno. Ritorno nella sera stessa a Parigi, su un’auto ammiraglia (della squadra piemontese Gazzola, spaghetti e tagliatelle, mi aveva dato il passaggio Pino Villa gran ciclofilo che faceva il pierre). Non c’era l’autostrada, ad Arras - metà percorso, Arras cupa città del nord con una cattedrale stupenda - la sosta per la cena. Era ormai notte, faceva freddo, l’auto aveva il tetto in tela ed era piena di spifferi, bevvi tanto vino per riscaldarmi, uscendo indossai l’impermeabile che avevo appeso ad un attaccapanni, a Parigi mi misi le mani in tasca, c’era un pacchetto di sigarette. Mai fumato, io. Era del proprietario dell’impermeabile, che fra l’altro era scuro mentre il mio era chiaro. C’erano anche tante chiavi, penso di casa, dell’auto... Mi comportai da vile, da malvagio, non telefonai al ristorante, temevo che il tipo da me superdanneggiato mi ammazzasse, legittimamente. Mi vergogno ancora adesso. Se un angelo mi offrisse di tornare indietro per rimediare a qualcosaccia, sceglierei quella volta ad Arras.
Sempre una Parigi-Roubaix. Mia l’auto, ci ospitai Gian Paolo Porreca da Napoli, noto eccome ai lettori di tuttoBICI, gran medico e grande amico nel segno della bicicletta. Voleva dare un riscontro visivo, dal vivo, al suo ciclismo splendido e onirico, scelse la corsa massima. Ricordo due cose: il lavorone di un pittore, francoalgerino credo, per riempire la strada dei ciclisti con disegni a vistosi colori: graffiti orizzontali per chilometri e chilometri. Mi è tornata in mente quell’opera leggendo di recente che Vittorio Sgarbi ha definito i graffiti, così belli quando sono belli, come la Cappella Sistina del 2000. Ricordo il felice stupore di Porreca, ricordo il suo secondo sgranare gli occhi chiari (e siamo a corsa finita) di uomo sapiente e felice davanti a un immane trofeo di patè e salumeria, offerto dallo sponsor della corsa a noi signori della stampa. Cena a Roubaix, con quel buffet sontuoso, niente sosta ad Arras sulla via del ritorno a Parigi.
Magari insisterò, nel 2017, a scavarmi ancora per scovare altro. Temo di potermi perdere in quella gran miniera che è stato per me il ciclismo, ma l’esplorazione mi seduce, mi attira. Ai lettori dico: non so se questa mia sia una promessa o una minaccia, fate voi e comunque abbiate pietà di me.
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