Dopo una lunga malattia, il 13 luglio scorso si è spento a 78 anni Nini Defilippis. È stato corridore professionista negli anni Cinquanta e Sessanta e poi ct azzurro nel biennio 1973-74 coronato con la vittoria iridata di Felice Gimondi a Barcellona nel 1973. In carriera ha conquistato 56 vittorie vestendo le maglie di Legnano, Torpado, Bianchi, Carpano e Ibac.
Il ciclista col quale ho avuto in tutti i sensi, quello quantitativo e quello qualitativo, la maggiore e migliore consuetudine, cioè Nino Defilippis detto il Cit, il piccolino in piemontese, è anche il ciclista celebre col quale ho parlato meno di ciclismo. Una volta che l’ho sfrucugliato perbene sull’argomento Coppi, visto che lui corse con e persino contro Fausto, ho preferito - lui d’accordissimo - parlare di vini e di cibi, di vita e di Toro (entità, quest’ultima, che per noi granata è vita). Ci siamo sovente espressi a fonemi, come accade fra amici. Abbiamo preso con pochissime parole decisioni vitali e reciprocamente condivise su questa o quella donna, questo o quell’evento immane o bischero, con dissertazioni tanto profonde quanto rapide, tipo “quella è una racchia”, “quella no”, “accidenti”, “ullallà”. Non ricordo un argomento sul quale non ci si sia trovati d’accordo.
La beffa da lui patita al Giro d’Italia 1962, quando una tappa trappola lanciò alla vittoria finale il suo compagno di squadra Balmamion, non venne mai, nei nostri colloqui, rivisitata: peraltro lui e Balmamion rimasero perfetti amici, come deve (dovrebbe) accadere sempre nello sport.
Non sono mai riuscito a farmi dare da lui la formula dei suoi fantastici agnolotti: «La sa mia madre, l’ha inventata lei, non la dice neanche a me». E io gli credevo. I suoi agnolotti, prodotto del pastificio di famiglia, erano toccati anche a me quando, anno 1956, il padre aveva spedito alla redazione del quotidiano sportivo di Torino una cassa piena di questo tipo di pasta ripiena, perché i giornalisti celebrassero stramangiando la vittoria di Nino nella tappa del Tour arrivata sotto la Mole, con lo stadio del calcio riempito di folla come non mai per il pallone.
È stato il primo e ultimo caso di corruzione da me patita. Da quel momento avrei scritto bene di Nino anche se non avesse vinto niente. E invece lui vinse molto, anche se meno di quello che avrebbe potuto. Buttò via un Giro delle Fiandre non sapendo che al terzo passaggio, quello finale, su quel traguardo la linea d’arrivo sarebbe stata spostata più avanti. Vinse facile la volata su Simpson, frenò per esultare senza rischi intanto che l’inglese pedalicchiava, rassegnato a essere secondo, e andava a vincere, pochi metri più avanti.
Nino era grande e balzano, vivace e ammosciabile. Un giorno al Giro d’Italia sfidò Coppi: la corsa era in Piemonte dove il piemontese Fausto non riusciva mai a vincere, Nino disse spavaldo al Campionissimo che avrebbe conquistato lui la tappa che li aspettava, «mi spiace per te ma vinco io», sembrava blasfemo. Coppi lo patì, lo capì, lo apprezzò e la sera del successo (di Nino) gli mandò a dire che era un duro, uno spavaldo, uno sportivo, un campione. Coppi che per molto meno aveva stroncato carriere. Defilippis non era il più forte in volata, sul piano, in salita, in discesa, a cronometro, nelle corse di un giorno o di più giorni. Però tutti avvertivano che lui avrebbe potuto vincere qualsiasi gara in qualsiasi momento. Il Cit nel ciclismo massimo era immanente, nel senso che non si poteva non tener conto di lui, in ogni pronostico, ogni calcolo, ogni attesa, ed era imminente, nel senso che sembrava sempre avere prenotato la vittoria del giorno. Palleggiava con il successo possibile, ecco, e ogni tanto faceva gol.
Lo fece anche da commissario tecnico azzurro: Gimondi nel 1973 divenne campione del mondo in una volata “proibita” perché c’erano Merckx e Maertens, fece lo sprint come se fosse stato Defilippis. Gli ho voluto bene assai, per il gran vero ciclismo e per i favolosi agnolotti che mi ha dato. Temo di non essere mai riuscito a dirglielo pienamente, avevamo troppo da sospirare insieme sul Toro.
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