So che è come lanciare un sasso nel vuoto, che nessuna vetrata verrà mai giù, ma non mi sembra un buon motivo per allinearmi al silenzio. Da diverse settimane una importantissima notizia ha varcato i confini di Francia, ma al di là di poche righe ben nascoste tra le brevi altro non è successo. Mi sembra un dovere civico restituirle la sua piena dignità.
Si tratta di questo: l’agenzia francese dell'antidoping ha pubblicizzato i risultati di un lavoro molto interessante. In sostanza, l’agenzia ha condotto 138 controlli a sorpresa, per esclusivi fini di studio, in quattro discipline: calcio, rugby, ciclismo, atletica leggera. Ebbene: sul 16,5 per cento dei casi esaminati, grazie al prelievo del capello, i laboratori hanno riscontrato valori “preoccupanti e anormali”. Inequivocabili le tracce di steroidi anabolizzanti.
Il meglio della notizia non sta ovviamente qui. Se ci fermassimo qui, la maggior parte degli italiani commenterebbe nel solito modo: i casi drogati saranno tutti ciclisti. Al massimo qualcuno dell’atletica leggera. È per questo che proseguo con i dati. Sono quasi poetici. La percentuale più alta dei casi anormali - guarda che caso - non è dei ciclisti, ma dei calciatori. Sui 138 prelievi, 32 erano riservati proprio a loro. Di questi, 7 sono risultati positivi all’ormone Dhea. Come raccontavano le agenzie di stampa, “il dato ha scosso il mondo dello sport francese, in particolare quello del calcio”. Ma va?
Sono scossi, povere gioie. Ma tu guarda. Da secoli ci rompono l’anima con questi loro atteggiamenti da vergini trafitte, ma figurati se nel calcio c’è il doping, ma quando mai, il doping lo fanno gli atleti di fondo, nel calcio non serve, il calcio è un gioco di destrezza, conta solo la tecnica... E bla-bla, e bla-bla, e bla-bla. Nemmeno ci provano, questi beoti che se la tirano tanto ragionando di 4-4-2 e di rigori fasulli, ad usare la testa. Nemmeno si accorgono che il calcio è cambiato, magari non come qualità, ma sicuramente come quantità. Che i giocatori corrono per 95 minuti, che giocano ogni tre giorni, che cominciano a luglio e finiscono a giugno. Altro che gioco di destrezza: il calcio è diventato a pieno titolo una disciplina di fatica e di consumo. Proprio una di quelle discipline che dal doping avrebbero un amabile aiutino, se solo si potesse.
Niente da fare: gli autorevoli commentatori del settore, nelle loro trasmissioni televisive (sempre più in crisi, chissà perchè), non si accorgono di tutto questo. O forse sì, se ne accorgono benissimo, anche solo in modo spannometrico: ma se ne guardano bene dall’approfondire. Parlano solo di raddoppi e di diagonali, che non fanno male a nessuno. Hai visto mai che approfondire il doping finisca per provocare qualche danno. Nell’ignoranza più brutale, proseguono con il vecchio dogma da mercato del pesce: ma dove, ma quando, al calcio il doping non serve nemmeno. Sono talmente faciloni e grossolani, che quando parlano con noi del ciclismo di questa materia passano per analfabeti. Difatti, quando poi devono per forza occuparsene per qualche sporadico caso, tipo Mannini e Possanzini, si sentono cose raccapriccianti. Certo, non è che noi siamo diventati mezzi biologi con il massimo piacere: ce l’hanno imposto dieci anni di tormenti e di scandali, ma non ci siamo tirati indietro. Loro, invece, come vispe terese insistono a testa bassa. Guarda caso, quando i francesi hanno documentato che nel calcio girano gli ormoni, i nostri simpatici osservatori del lunedì nemmeno si sono sentiti in dovere di approfondire. Lo sanno tutti, nel calcio il doping non serve: e passiamo alla moviola, ci sono parecchi casi importantissimi...
Qui lo dico e qui lo ridico: il ciclismo, con la sua storia più recente, non ha alcun titolo per innalzare urla e schiamazzi. Ma allo stesso tempo ha il pieno diritto di non uscirne con l’anello al naso. Allora, mettiamoci al lavoro. Senza pudori e senza timori. Il ciclismo deve lanciare sassate tremende contro l’omertà, contro l’ignoranza, contro l’ingiustizia del sistema globale. Il ciclismo deve continuare ad affondarsi il bisturi tra le proprie membra, senza pietà, ma non è più accettabile che gli altri continuino a circolare tranquillamente con la lebbra e con la rogna. Noi saremo sporchi e cattivi, ma il codice Adams della Wada sulla reperibilità degli atleti lo subiamo in silenzio da anni. Com’è che arrivano i signorini del calcio e del tennis, e improvvisamente volano gli stracci contro misure tanto invasive e crudeli, insensibili alla privacy e all’intimità? Tutti abbiamo sentito l’indignazione di Nadal. Bambino caro, dov’eri quando tutto questo veniva applicato solo ai ciclisti? Eri sotto la doccia o eri per caso dal medico?
Patti chiari, amicizia lunga. Questa dev’essere la prima regola delle regole. La giustizia dev’essere una, uguale per tutti. Invece siamo all’aberrazione che alcuni sport, il calcio per primo, hanno siglato la nuova normativa, salvo poi minacciare la rivoluzione se questa sarà applicata. Ma dove siamo, al circo Orfei? O alla bancarella dei tarocchi? Da qui in avanti, sarà bene evitare la figura del vieni avanti cretino. Il ciclismo non deve essere il cretino che viene avanti. Deve stare con gli altri, subire quello che subiscono gli altri. Mi sembra persino scontato: la soluzione non è togliere le regole anche al ciclismo, ma applicarle a tutti gli altri.
Giustizia giusta, solo questo si chiede. Perché ormai è chiaro che non esistono più sport lebbrosi e sport illibati. Per fortuna, mi pare che in Italia, ai vertici Coni, ne siano perfettamente consapevoli. Ultimamente, il presidente Petrucci si è espresso con parole sublimi, che sottoscrivo totalmente: «Quando una disciplina o una nazione dice “quest’anno da noi nessun caso di doping”, io mi allarmo molto. È segno che non l’hanno cercato». E bravo il presidente. Nel mio piccolo, gli vorrei fare un banalissimo esempio. In occasione dell’Operacion Puerto, è risultato che Italia e Germania sono luoghi dopatissimi. La Spagna, invece, è verginissima. E in giro per il mondo ne sono ancora convinti.
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