Gatti & Misfatti
Caro Ivan...

di Cristiano Gatti

aro Ivan Basso,
ci sono due o tre cose che a cavallo tra Giro e Tour, le due grandi aspirazioni della tua vita d’atleta, sento il dovere di dirti a mezzo stampa. Non è niente di che: praticamente, sono i pensieri emersi strada facendo durante il tuo stranissimo calvario rosa, tra la vetta di Zoldo Alto e la picchiata della gastroenterite.

Tanto per cominciare: bravo. Ti prego di non prendere i complimenti come il pietistico riconoscimento che la retorica del ciclismo dispensa a chiunque, della serie “tutti primi al traguardo del mio cuore”. Nello sport come nella vita, non sono tutti bravi: ci sono i limpidi fuoriclasse e ci sono gli emeriti somari. Altro che “bravi tutti”. La tua posizione di classifica certamente non è da “bravo” in senso classico. Ma non è del piazzamento che sto parlando adesso. Il “bravo” si riferisce a qualcosa che in un certo senso sta persino sopra una semplice vittoria: mi riferisco a una bellissima sconfitta.

In tanti, in tutti i campi dell’esistenza, si dimostrano capaci di vincere. Vincere può essere molto semplice, per chi abbia i numeri: lo stesso vivere diventa di una facilità disarmante. Tutto è semplice, quando si vince. Ma non bisogna confondersi mai: gli uomini non vanno giudicati nei giorni migliori. Bisogna vederli all’opera nei momenti difficili. Ecco, parlando di Ivan Basso, il pubblico è perfettamente consapevole d’aver assistito alla grande sconfitta di un signor campione.

Guardati in giro, caro Ivan. Certo, se avessi vinto il Giro, adesso avresti tutti i giorni la fila davanti a casa. Sindaco, fanfara e amici d’infanzia, compresi quelli che non hai mai conosciuto. Ora non ci sono feste civiche: ma consolati, c’è qualcosa di meglio. Hai un posto comodo e riscaldato nel cuore dei tuoi connazionali. Te lo dico sinceramente, anche se so che la cosa ti manderà in bestia: non so se la vittoria al Giro ti avrebbe fruttato tanta popolarità e tanto affetto. Hai pensato mai, a questa cosa?

L’hai detto tante volte durante i giorni neri del tuo crollo: la vita è questa, bisogna farsene una ragione. Parole giuste. Ma nel tuo caso fartene una ragione risulta molto più facile, perché questa sconfitta ti concede quanto da anni cercavi e inseguivi: l’attenzione, la simpatia, il tifo del tuo Paese. Su questo ci puoi scommettere: tutti, in Italia, ora sanno chi è e cosa vale Ivan Basso.

Personalmente non mi piace santificare nessuno: nel tempo, ho imparato che gli uomini custodiscono tutti una miscela di bene e di male, di segni più e di segni meno, in dosi variabili a seconda dei soggetti. Non sto dunque qui a raccontarti come santo. Non ti è richiesto, di essere santo. Ma quello che è richiesto a un giovane campione, come a un semplice uomo senza fama, tu l’hai esposto nella vetrina del Giro. In questa stagione infernale dell’immagine e della fuffa, con tutti questi sportivi che sembrano buttafuori di discoteca, con i loro tatuaggi e i loro orecchini, i loro piercing e le loro chiome boccolate, tu ti sei presentato come un semplicissimo ragazzo della tua età. Educato, gentile, serio. Serio come si dev’essere seri: col sorriso sul volto, come un eterno grazie alla vita, senza cadere mai nel sorriso ebete di chi ride solo perché così bisogna porsi in pubblico. La gente ha colto la sincerità, e alla fine ha imparato ad apprezzarla. Certo, il pubblico non è sacro: il pubblico adora anche i plastificati dei reality-show. Ma sono due pubblici diversi: dalla tua parte, tu hai certamente il pubblico dei semplici. Dei veri. Degli umani.

Poi, certamente, ci si è messa anche la trama. Il campione che sboccia, che finalmente corona il suo sogno rosa, e poi improvvisamente perde tutto per un malanno. Toccherebbe anche un cuore di marmo. Ma c’è di più: questo campione in rovina non solo incassa con dignità il rovescio, addirittura si beve tutto d’un fiato il bicchierone pieno delle umiliazioni. Giorno dopo giorno, quarto d’ora dopo quarto d’ora, una lenta e inesorabile sofferenza. Ma accettata fino in fondo, senza scuse e senza sconti. Senza scorciatoie e senza livori per nessuno.

Aseguire, tutto il resto. Il tuo stile da Indurain italiano, discreto e garbato, nobile e lieve. Nella tua normalità, un esempio assoluto di vero anticonformismo. Per quanto mi riguarda, sono ancora ammirato per come giustamente manipoli i tuoi sentimenti più intimi. La tua signora e la tua bambina sono preponderanti nei tuoi pensieri, spesso compaiono anche negli alberghi dove alloggi per una veloce visita-parenti. Eppure non li hai mai sbattuti in pasto a noialtri giornalisti, soprattutto a quelli di noi che non esiterebbero a spolparti con delicatezza da “Stranamore”. E c’è un’altra cosa, per cui sicuramente me ne vorrai, al solo trovartela scritta: quel lutto profondo e indelebile della tua mamma. Alla partenza di una tappa del Giro, in maglia rosa, prima di andare a Rovereto, ci hai chiesto - con tono quasi minaccioso - di non parlarne mai. Di lasciare soltanto a te questa cosa enorme e dolcissima. Caro Ivan, scusa se contravvengo all’ordine: spero capirai. Non è per fare del giornalismo sentimentale e ruffiano che ricordo questa cosa: è per dire quanto contrasti il tuo modo d’essere rispetto all’andazzo imperante, con tutte le vicende familiari più delicate quotidianamente diffuse a mezzo comunicato stampa. O in fondo a un teleobiettivo.

Ma prima, c’è già il tempo per correre un altro grande Tour. Anche solo per chiudere la bocca a chi, dimenticando i tuoi ultimi tre anni, già racconta che non tieni le tre settimane di corsa, che non sopporti le responsabilità, che bla bla e bla bla e bla bla. Caro Ivan, a nome tuo, ma per conto nostro - di questa Italia che ha imparato ad amarti nei giorni più neri -, mettili subito a tacere. Il vero debito che hai contratto con noi non è la maglia rosa: è l’assordante pettegolezzo di questi espertoni del giorno dopo. Fai il favore: saldalo. Intanto, ti saluto caramente.
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