Alaphilippe, il gigante del Tour

di Pier Augusto Stagi

Non ha vinto il Tour de Fran­ce, ma ha capito chiaramente cosa significhi riuscire nell’impresa e quanto sia faticoso arrivare lassù in cima. Non ha vinto, ma Giu­liano in un certo senso è il vero trionfatore della Grande Boucle. Già al via da Bruxelles si portava dietro l’aurea di corridore champagne, spumeggiante e imprevedibile, capace di incatenare i cuori degli sportivi per la sua condotta di gara sempre volta alla battaglia, allo spettacolo, a qualcosa che potesse divertire e di conseguenza an­che affacinare chi lo sta a guardare.
Giuliano Alaphilippe esce da questo Tour da Gigante: due tappe vinte, quattordici maglie gialle (non succedeva ad un francese dai tempi di Bernard Hi­nault, anno di grazia 1985, ndr), una resistenza pazzesca che ha entusiasmato gli amanti di questo sport.
Giuliano piace per come corre e per come si porge all’esterno: buon per Patrick Lefevere, che se lo è tenuto ben stretto e l’ha fatto rinnovare molto prima dell’inizio del Tour: chiamalo fesso. «Voglio arrivare il più lontano possibile con la maglia - ha detto il numero uno del ciclismo mondiale -. A un amico non direi di scommettere su di me, ma di tenere i soldi per la festa di Parigi. Perché comunque vada, sarà un successo: e noi faremo festa».
È così Giuliano, acuto e sfrontato. Sim­patico ed empatico: se gli vai a genio si apre, altrimenti amen. «Io sono disponibile, con chi dimostra di esserlo al­trettanto» dice con quel sorriso che piace un sacco alle ragazzine.
È un uomo che da sempre va forte in bicicletta, sia su strada che nel fango. Adora il fuoristrada e non disdegna la pista: è un funambolo delle due ruote, tutto estro e creatività. Detto come va detto, non ha nulla da invidiare a uno come Peter Sagan, se non quei tre titoli mondiali consecutivi, ma questo ragazzo di Francia ha solo 27 anni e promettere maledettamente bene.
Ha mandato in estasi i cultori delle due ruote: di casa e di mezzo mondo. Da­van­ti al talento ci si può solo alzare in piedi ad applaudire: altro che storie. Come sul Tourmalet, quando resiste in giallo, transitando per secondo, alle spalle del connazionale Tibaut Pinot.
Dopo aver dominato l’unica crono in­dividuale di questa Grande Boucle appena andata in archivio (27 chilometri a Pau, ndr), battendo persino per 14 secondi il campione in carica Geraint Thomas nel giorno del 100° compleanno della casacca più amata, Giuliano si è superato sul Gigante dei Pirenei. Lassù dove osano le aquile e dove osa il galletto che la Francia ha acclamato, ma anche snobbato fino a quest’anno.
Snobbato sì, perché nessuna squadra ha avuto l’accortezza e il buon cuore di guardare al di là del proprio naso, co­me ha saputo viceversa fare Lefevere, che non ci ha pensato due volte ad ac­caparrarselo appena 19enne (veniva dalla transalpina Armée de Terre, ndr), oggi è considerato un pezzo pregiato dell’argenteria di casa.
Dopo la vittoriosa crono, in tanti han­no mostrato sorpresa. Dopo la sua strenua difesa della maglia gialla sul Tourmalet, davanti al Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, in molti hanno cominciato a domandarsi: «A questo punto, può vincere il Tour?». E lui sereno come pochi: «Io questa domanda neppure me la pongo. Preferisco vivere alla giornata. Ho vin­to la crono ed è incredibile. Volevo sorprendermi, mi sono detto che non ave­vo niente da perdere, speravo di salvare il primato. Ma addirittura guadagnare su gente come Thomas… Nella macchina della squadra hanno pianto. Il pubblico mi ha spinto, la maglia gialla mi ha fatto superare i miei limiti».
Quel giorno, il ragazzo, si è trovato las­sù dove osano le aquile con dei giganti del ciclismo. In ordine sparso: Eddy Merckx e Bernard Hinault, Joop Zoetemelk e Bernard Thevenet, Greg LeMond e Alberto Contador.
C’è chi lo chiama il Moschettiere, altri D’Artagnan. Molti «Loulou»: in ogni caso tutti lo invocano e lo vogliono: è il più vincente (12 centri) del 2019 - con le perle di Strade Bianche, Sanremo e Freccia Vallone - . È il numero uno al mondo, per distacco. «Possiamo credere in te?», gli hanno chiesto a bruciapelo ricordando il passato di alcune ma­glie gialle travolte dal doping. Giuliano non si fa prendere dal nervosismo e risponde con calma:  «Non avrei mai immaginato di essere a questo livello: sono il primo a essere sorpreso da me stesso. È come se allo stesso tempo fossi attore e spettatore di quanto sto facendo. In ogni caso non sono qui per rispondere ai sospetti, so il lavoro che ho fatto. Se fossi ultimo in classifica, di sicuro non ce ne sarebbero».
Ed è bene ricordare la storia di questo ragazzo, che sta incantando il mondo. «Ho cominciato a correre all’età di 13 anni, con una bici vecchissima. Arrivo dal nulla, i miei genitori non avevano i soldi per comprarmi una bici come si deve. Sapete quanto costano, oggi ne uso di bellissime, me le regalano, ma mi ricordo quanta fatica facevo a mettere da parte i soldi che servivano per comprare ciascun ricambio. Ho sempre voluto vincere, ma da ragazzino faticavo perché ero piccolo fisicamente ri­spetto ai miei coetanei. Mi sono dovuto accontentare tante volte del secondo posto, come adesso d’altronde (ride, ndr). Fino al via di questo Tour pensavo di essere solo un corridore da corse di un giorno, quelle in cui ci si gioca tutto in poche azioni, in cui prevale l’istinto, il mio punto forte, rispetto alla tattica e alla calma che bisogna avere per curare la generale di un Grande Giro. Adesso però ho qualche elemento in più per pensare che potrei fare qualcosa anche in qualche corsa a tappe».
L’uomo del momento viene da Saint-Amand-Montrond, un comune situato nel dipartimento del Cher, nella regione del Centro-Valle della Loria, dove l’11 luglio 1992 è venuto alla luce.
«Sono un ragazzo semplice, che è cresciuto in una famiglia che non ha mai avuto nulla a che vedere con il ciclismo - ricorda -. Mio padre Jacques mi ha trasmesso la passione per la musica. Ora è in pensione, ma ha lavorato tutta la vita come direttore della banda. Io suono la batteria, ho iniziato da bambino, mi serviva per sfogarmi perché ero iperattivo, e ancora oggi mi rilassa. Mamma Katrine invece ha sempre fat­to la casalinga, ha avuto un gran da fare con i miei due fratelli minori Bryan, che ha 22 anni ed è ciclista an­che lui, e Leo, che ne ha 14 ed è studente (ha anche un fratellastro di vent’anni più grande di lui, nato da un precedente matrimonio del padre che ha 78 an­ni e che Julian ha abbracciato forte in mondovisione a Parigi, dopo essere stato premiato come supercombattivo del Tour, ndr)».
Tra i dilettanti ha corso nella formazione militare Armée de Terre. «Ho dei bellissimi ricordi di quel periodo. Ave­vo 18 anni, vivevo nella caserma di Saint-Germain-Laye, vicino a Parigi, con la formazione dell’esercito francese ho imparato tutto: per la prima volta mi è stato permesso di fare ciclismo ad alto livello. Poi sono stato contattato dal team Continental dell’allora Omega Pharma Quick Step e ho colto l’occasione. Dopo un anno con buoni risultati, a fine stagione Le­fevere mi ha proposto un contratto di due anni. E da quel momento non l’ho più lasciato».
Corridore fuori dagli schemi, che ha mosso le prime pedalate di un certo livello nel fuoristrada. «Il ci­clocross è stata la mia scuola, ho iniziato con quello, mi ha insegnato la tecnica e l’abilità di guidare la bici. Invito i giovani a praticarlo. Da junior fui se­condo al mondiale a Tabor e ho vinto la prova di Coppa del Mondo a Zolder. All’epoca non avrei mai pensato di dire addio al fuoristrada per dedicarmi alla strada, invece è successo».
Poi la resistenza sul Galibier, strenua e pazzesca. Difende la maglia gialla, per l’ultima volta in questo Tour, ma di quel giorno resta un gesto: un bimba infreddolita, e lui che la copre con la maglia gialla. Come a dire: “piccola a me non serve più, scaldati”. La resa il giorno dopo, sull’Iseran, poco prima che si scatenasse la tempesta r poco do­po la tempestosa accelerazione di Egan Bernal. E dalle spalle di Ala­phi­lippe cala la maglia gialla. Ma sale l’applauso.

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