Credo proprio di avere inventato io quel modo speciale di chiamare la televisione, «mamma tivù», che si è abbastanza diffuso. Fu in occasione della prima Milano-Sanremo in telecronaca diretta (1954, vittoria di Van Steenbergen, telecronaca di Fausto Rosati in collaborazione con Nicolò Carosio e Adriano De Zan), e ricordo che colleghi cari mi rimproverarono per il titolo che Tuttosport aveva fatto riferendo delle riprese: «Mamma tivù dacci di più». Mi dissero che bisognava ignorare e casomai combattere la televisione, sennò ci mangiava tutti. Risposi che anche al Corriere della Sera il redattore capo aveva deciso di ignorare «Lascia o raddoppia?», così, disse lui, la trasmissione sarebbe morta.
Credo, temo di essere stato, fra i giornalisti che all’epoca si occupavano di ciclismo, quello che forse aderì di più al mezzo televisivo. C’era il «Processo alla tappa» di Sergio Zavoli, e io facevo ogni giorno il «Processo al processo»: altri colleghi dicevano che bisognava ignorare o almeno non enfatizzare la trasmissione, alla quale però facevano riferimento per documentarsi sulla tappa e sulle polemiche eventuali.
(Parentesi: approfitto di una questione “storica” per precisarne un’altra: se c’è ancora, fra gli archeologi, chi lo pensa, non è vero che ho inventato il termine «merckxismo» a proposito dell’Eddy dirompente. Copiai dai francesi dell’Équipe, due righe in un angolo di una rubrichetta di curiosità e battute, con la domanda: «sapete perché il ciclismo tiene la sinistra? perché è merckxista». Ignoro l’autore, non c’era firma, comunque lo omaggio con un ringraziamento).
Debbo dire che la televisione, da quella Milano-Sanremo, ha preso possesso del ciclismo (non è certo una scoperta), ma debbo anche dire che mi sembra che, come nel linguaggio giuridico, possesso e proprietà siano due cose diverse. La televisione non ha la proprietà del ciclismo. E non mi riferisco ai cosiddetti diritti, parlo proprio di proprietà spirituale.
Me ne sono accorto (di nuovo) nei giorni delle classiche, con la redazione davanti al video per seguire le vicende di una corsa. Ecco, pure il più teledipendente di noi ad un certo punto prende l’evento ciclistico e lo coltiva a modo suo, anche mentre è incompiuto, anche in pieno suo divenire. Lo infiora di tifo, di dogmi, di ipotesi, di attese tutte personali. Si costruisce nel cervello, e anche nel cuore, nell’anima, una corsa per la quale, ad un dato momento, non ha più bisogno di nessuna televisione: di nessun supporto di immagini. La televisione al massimo gli dà le coordinate, come dire?, balistiche, dicendo che i corridori stanno in quel posto, distanziati da quello spazio. Poi spara lui, il tifoso, il proprietario poetico del ciclismo, tutti i colpi, spedisce pronostici, lancia teorie, crea speranze.
Il senso di proprietà della corsa fa sì che lui, in quel momento, pensi alla televisione come ad una fruitrice (e non importa poi se anche dispensatrice) di una cosa non sua. Una entità che abita e fa vivere un appartamento che però è ancora suo, sempre suo, e che lui può popolare di tutti i suoi sogni. Accade come quando si torna in una casa che è nostra, che abbiamo abitato per anni, e che poi è stata data in affitto: sì, dentro ci vive una famiglia intera, che fa le sue cose, ma la proprietà poetica di quella casa, le ipotesi di fantasia legate a quella stanza piuttosto che a quell’altra, rimangono nostre, eccome.
Non so se sono stato troppo complicato, o assurdamente difficile a proposito di una situazione che in fondo è semplice. In altre parole, voglio dire che ci sono sport che si consegnano completamente alla televisione, bloccando la fantasia o accettando quella elettronica, così che la dipendenza è totale, la proprietà da parte di essa è piena. Ce ne sono - e penso anche al podismo della maratona - di quelli per i quali le immagini televisive sono di mero supporto alla fantasia, e finiscono, ad un certo punto, per non essere più necessarie. Sul teleschermo potrebbero apparire delle semplici informazioni scritte, al resto ci penso io, so bene com’è, o comunque come deve, nel mio mondo poetico, essere un Pantani in fuga. Mentre un Lewis che corre i 100 metri devo proprio vederlo.
C’è un lungo concorso-pronostici fra giornalisti, lo ha lanciato la Mapei, riguarda tutte le corse più grandi, il premio finale è un grande viaggio per due. Mi sono trovato provvisoriamente in testa alla classifica per merito non mio, ma di Cesarino Cerise che mi ha aiutato a mettere giù una previsione e a trasmetterla.
Mi piace però ammollarmi e ammollarvi un ricordo, approfittando del ricorso. Nel mio primo Giro d’Italia, o nel mio secondo, non importa, un ciclista mi disse, a proposito del concorso fra giornalisti, di metterlo quinto in quella data tappa, io eseguii, lui arrivò proprio quinto, io presi quei punti che furono decisivi per la vittoria finale nel concorso, un orologio che conservo ancora. Da allora è nata, fra me e quel ciclista, una grande amicizia, che è sfociata nella pubblicazione di un periodico, La Buona Sera, dedicato alla morte, visto che lui è un impresario di pompe funebri e si chiama Alcide Cerato. Dove si vede che non solo le vie del Signore e di quei signori che ci comandano sono infinite, ma anche quelle del nostro caro sport.
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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