Sacchi a ruota libera, tra Ferron, Celestino, Cassani e Nibali

INTERVISTA | 18/04/2015 | 10:18
Avrebbe potuto correre altre tre stagioni, con la maglia della Lpr di Fabio Bordonali, invece il 3 dicembre del 2008 gli è stata recapitata una bella letterina proveniente dal Coni e lì sono iniziati i suoi problemi.
Fabio Sacchi, 41 anni il prossimo 22 maggio, lo incontriamo negli studi televisivi di Teleromagna. È qui per registrare una nuova puntata di «A tutta Bici» e a Fabio, che la bici ce l’ha ancora nel sangue, gli luccicano gli occhi a rivedere amici che era qualche anno che non incontrava più. «Per “una presunta conoscenza di Carlo Santuccione” – uno dei medici più chiacchierati nel mondo della bicicletta e non solo -, la mia carriera si è improvvisamente interrotta – ci racconta il milanese, che in 14 anni di professionismo ha collezionato 28 vittorie-. Avevo appena firmato un contratto con la Lpr di Alessandro Petacchi, tre anni per arrivare a 17 anni di professionismo, che per me significava pensione. Invece quella lettera, ha bruscamente interrotto tutto».

E poi come è andata a finire?
«Il 1° aprile del 2009, mi è arrivata un’altra lettera sempre dal Coni, con le scuse. Fine delle trasmissioni».

Non sarà stato un pesce di aprile?
«No, guarda, era una lettera verissima».

Nel 2009 hai anche corso e vinto una Novecolli…
«Esattamente. In pratica mi hanno tirato per la giacchetta, perché io non me la sentivo assolutamente di correre: avevo già dato. Ma a forza di sentirsi dire, tu non sei adatto a correre una gran fondo così, io dissi: “non solo la corro, ma la vinco”. E così ho fatto ed è andata. Oggi però vado in bicicletta solo per diletto, per divertimento. È molto meglio, molto più divertente».

Cosa fai oggi?
«Vivo a Cesenatico, zona Bagnarola, a tre chilometri da dove parte la Nove Colli. Ci vivo da sette anni con la mia compagna Rita Pini, conosciuta all’hotel Savioli di Riccione. Oggi ho tre figli: Luca di 12 anni, Michel 10 e Margherita di 5. I primi due hanno visto il loro babbo correre, la piccola mai e spesso, quando vede una corsa in tv, lei mi chiede: “Papà, sei tu?”. E io le rispondo: “Magari tesoro. Magari”».

Non hai mai dimenticato il ciclismo…
«E come si fa? È una passione troppo profonda, troppo vera, anche se le delusioni e i momenti di sconforto non sono mancati».

Cosa fai oggi?
«Sono il responsabile commerciale della Q&E 36.5. È un’azienda di abbigliamento creata da Luigi Bergamo, che dopo più di vent’anni trascorsi in una grandissima azienda di livello mondiale, ha deciso di mettersi in proprio. Ora gli seguo il mercato italiano, belga e olandese».

Ti manca il ciclismo?
«Un po’, è normale che sia così».

Cosa pensi del ciclismo di oggi?
«Che ci sono tanti giovani interessanti, ma che osano troppo poco».

Preferisci i vecchi?...
«Guarda Paolini. Il Gerva merita un monumento tutto suo. Ha vinto una Gand da urlo. L’ha vinta da vero corridore belga».

Anche tu non eri niente male nelle classiche del nord.
«Mi difendevo. Ci trascorrevo anche 50 giorni filati in Belgio. Al Fiandre sono sempre andato molto forte. Sesto quando vinse Tchmil, poi decimo e dodicesimo. Alla Roubaix, invece, ho sempre sofferto come un cane. Il pavé della Roubaix non ha nulla a che vedere con i muri delle Fiandre. La Roubaix, devi davvero amarla. Se non ce l’hai dentro, se non la comprendi, ti stritola».

Tu hai corso con grandi corridori, con grandi campioni, hai avuto supervelocisti come capitani: Cipollini o Petacchi?
«Cipollini, non ci sono dubbi».

Con chi ti senti ancora?
«Silvio Martinello. Ma ho incontrato recentemente anche Davide Cassani e mi ha fatto piacere vederlo così immerso nel suo ruolo: è davvero nato per fare il Ct».

Il miglior tecnico che hai avuto?
«Giancarlo Ferretti. Ferron era uno spettacolo. All’inizio, per via dei miei pizzetti, dei miei tatuaggi e dei miei capelli colorati mi prese di mira. Poi, quando ci ho dato un taglio, nel vero senso della parola, sono diventato uno dei suoi uomini di fiducia».

Un corridore che hai sempre apprezzato ma ha reso meno di quanto tu ti saresti aspettato?
«Filippo Pozzato. Ha una classe innata, ma secondo me è stato anche molto sfortunato e non totalmente compreso. Pippo è un cavallo di razza, uno che deve sentire attorno a se fiducia».

Compagno di stanza?
«Mirko Celestino. Ragazzo eccezionale. Alla Milano-Torino lo superai allo sprint. È una vittoria che mi diede grande soddisfazione, ma che mi lasciò anche un po’ di amaro in bocca. Non è mai bello battere un amico bravo e leale come Mirko».

Il giovane che ti impressionò di più?
«Vincenzo Nibali. Quando arrivò giovanissimo alla Fassa Bortolo rimasi folgorato da quel ragazzino timido e riservato che pedalava come pochi. Che classe, che talento».

Ti saresti mai aspettato che diventasse quello che è diventato?
«Che arrivasse a vincere tutti i Grandi Giri no, ma che diventasse un grande era scritto. Bastava guardarlo pedalare. Ma oggi il Nibali che ho conosciuto io non c’è più. Oggi è un campione, un uomo. Un vero uomo. Mi piace per la sua tranquillità, per l’essere rimasto quello che era, un ragazzo dal talento indiscusso, ma con i piedi per saldati per terra. Lui è davvero il testimonial più bello che il ciclismo italiano possa esportare nel mondo. Peccato che in Italia, dove regna la dittatura del pallone, uno come lui non sia valorizzato fino in fondo».

Pier Augusto Stagi
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