LAMPRE MERIDA. Copeland: la nostra sfida al mondo

PROFESSIONISTI | 05/03/2014 | 08:51
Brent Copeland è un uomo di dialogo. Sa ascoltare e soprattutto parlare: in tutte le lingue del mondo o quasi.  È nato a Johannesburg il 29 febbraio 1972 e negli ultimi vent’anni ha vissuto in Italia. Da questo mese si trasferirà a Chiasso. La sua lingua madre è l’inglese (la sua famiglia è anglosassone di origine scozzese, ndr), la seconda è l’afrikaans che gli permette di capire e parlare discretamente il fiammingo e l’olandese, parla correttamente l’italiano anche se «a scrivere so­no un disastro», se la cava con il francese e lo spagnolo e sa addirittura esprimersi in giapponese, «non sono in grado di fare chissà quali discussioni, ma l’ho imparato perché ho lavorato per cinque anni con una compagnia giapponese».
La sua avventura ciclistica parte dal Sud Africa e lo porta a viaggiare praticamente in tutti e cinque i continenti, prima come corridore, poi come massaggiatore, direttore sportivo e infine team manager, non solo nel mondo delle due ruote. Tutto in poco più di 40 anni: quando si dice vivere intensamente...
Per la preparazione completa in tutti gli ambiti del ciclismo e l’esperienza su scala internazionale che può vantare nel mondo dello sport in generale la Lampre Merida l’ha voluto con sé o meglio l’ha rivoluto. Da quest’anno il poliglotta Cope­land sarà il braccio operativo di Beppe Saronni, che volendosi concentrare maggiormente nell’attività di ricerca e gestione di finanziatori, sponsor e partner, gli ha affidato il ruolo di team manager, incarico che comporterà, ol­tre alla direzione dell’intero staff operativo della squadra, la gestione dell’area sportiva, a stretto contatto con di­rettori sportivi, staff medico, responsabile della programmazione agonistica e della preparazione atletica.

Riassumere brevemente la tua carriera è quasi impossibile, proviamoci.
«Partiamo da quando correvo e diciamo subito che ero tutt’altro che un ta­lento. Ho iniziato a competere in Sud Africa come dilettante, quando il ciclismo non era uno sport organizzato ma solo un hobby. Il mio sogno era di ve­ni­re a gareggiare in Europa, lo realizzai grazie a Sergio Bianchi e al povero Ugo Balatti che mi permisero nel 1994 di raggiungere l’Italia e ottenere una li­cenza per correre come Élite nel Velo Club Lugano. Dopo due anni e ben po­chi risultati, a 25 anni ho appeso la bici al chiodo: mi ero dato questo limite massimo di età per capire se nella vita avrei potuto fare il corridore o meno».

Valigie pronte, si torna a casa?...
«L’idea era quella, ma fui contattato dallo sponsor giapponese della formazione Nippon Hodo (lo stesso dell’attuale Nippo Fantini, ndr) che mi propose di occuparmi di tre ragazzi giapponesi che si affacciavano al mondo delle due ruote. Mentre vivevo quest’esperienza, ho seguito i corsi necessari per diplomarmi come massaggiatore e per ottenere la tessera da allenatore finché, con la fusione del team per cui lavoravo con la Gewiss dilettanti, ho avuto modo di fare qualche esperienza come massaggiatore tra i professionisti».

Da massaggiatore a CT.
«Avendo il titolo di direttore sportivo, ho potuto accettare la proposta di guidare la nazionale del mio Paese, così per quattro anni sono stato commissario tecnico del Sud Africa. Arriviamo al 1999 quando inizio a lavorare in Lam­pre prima come massaggiatore, poi co­me direttore sportivo. Come sono finito in ammiraglia? Per una questione mol­to pratica (sorride, ndr). Nel 2000 era entrato in vigore il regolamento che prevede che la seconda macchina in ga­ra deve essere guidata da un direttore sportivo e non da un massaggiatore, come era abitudine fino ad allora. Così io, che avevo già la mia bella licenza, grazie a Pietro Algeri ho iniziato a fare davvero il diesse al Tour de France di quell’anno, o meglio, durante il giorno facevo il ds e alla sera continuavo a fa­re i massaggi. Man mano ho iniziato ad essere coinvolto maggiormente sotto l’aspetto tecnico e a fare il diesse a tempo pieno fino al 2005, quando ci fu la fusione tra Lampre e Saeco: visto che ci ritrovammo in troppi ds, decisi di fare un passo indietro e concentrarmi sul negozio di bici che stavo avviando. Dopo due anni lontano dalle corse sono ritornato in Lampre per altre due stagioni dirigendo i campioni del mondo Ca­menzind e Astarloa e assistendo al passaggio tra i professionisti del futuro iridato Ballan».

Come approdi al motociclismo?
«Mi sono scordato di dirvi che in tutto ciò avevo preso casa a Como, località dove avevo portato nel 2000 Robert Hun­ter, il primo dei sudafricani che hanno trovato fortuna da queste parti nel ciclismo. Dopo di lui siamo stati raggiunti da Froome, Impey... che non a caso sono cresciuti vicino al Lago. Su queste stesse strade ho conosciuto mol­ti piloti che si allenavano in bicicletta, tra cui il campione del mondo 2009 della Superbike Ben Spies che mi chiese di diventare coordinatore delle sue attività. La mia filosofia mi porta a buttarmi sempre in nuove esperienze per imparare e crescere, così per tre stagioni lavoro con lui. Questa parentesi della mia carriera al fianco del centauro americano della Yamaha è stata davvero preziosa e interessante».

Torni nel ciclismo nel 2013, quando vieni chiamato a organizzare il varo della pri­ma squadra Professional africana della sto­ria, ovvero la MTN-Qhubeka.
«Esatto. È sempre stato il mio piccolo sogno, la mia missione, dar vita a qualcosa di concreto per il ciclismo nel mio Paese. Lo raccontavo in tempi non so­spetti all’amico Shayne Bannan, ge­neral manager della Orica GreenEdge: vo­levo creare per il Sud Africa qualcosa di simile a quanto è riuscito a mettere in piedi lui in Australia. In realtà, a conti fatti, non ho mai avuto l’appoggio che speravo dalla federazione e il lavoro che mi è stato proposto inizialmente non è corrisposto a quello che dovevo svolgere nella realtà. Nono­stan­te le grandi ambizioni iniziali, non trovandomi d’accordo con molte scelte dei vertici del team, alla fine della stagione scorsa ho lasciato, soprattutto per il be­ne dei corridori che, per come la ve­do io, meritano di lavorare in un gruppo unito e affiatato. Ad ogni modo, co­me si suol dire, si chiude una porta e si apre un portone».

Ad aprirglielo è stato ancora una volta  Saronni.
«Avevo ricevuto due proposte per tornare in Superbike ma non potevo dire di no a Beppe, oltre che per la stima che ci lega, per il ruolo che mi ha affidato. Le sfide, come avrete capito, mi piacciono e in Lampre ho lavorato be­ne fin dagli inizi. Con Beppe ho sempre avuto un rapporto trasparente e aperto, per dove sono arrivato gli devo molto. Ricordo per esempio che, quando ebbi l’occasione di entrare nel mon­do della Moto GP, fu lui il primo a spingermi ad accettare quell’opportunità. Anche se ormai vivo da tanto tempo in Italia sono sempre uno “straniero” e questa squadra, giuro non è retorica, è la mia famiglia adottiva. Ap­prezzo la volontà della società di coinvolgermi nel percorso di internazionalizzazione e perfezionamento del­la squadra, di adattamento agli standard del ciclismo moderno. Sono pronto e determinato a favorire questa transizione, sapendo di poter contare su un gruppo di persone che rappresentano, ognuna nella propria specifica professionalità, delle eccellenze. Abbiamo già iniziato a lavorare tutti assieme, partendo da un ottimo livello di competenze e di esperienza, per aprirci a una di­mensione ancora più ampia».

Questo ciclismo sempre più internazionale ti piace?
«L’apertura a nuovi mondi per me è as­solutamente positiva, ma andrebbe ge­stita meglio e soprattutto con maggiore gradualità. Non è un processo che si può realizzare da un anno all’altro, quin­di non capisco la corsa spasmodica di organizzare nuove corse in Paesi in cui non esiste ancora una cultura di que­sto sport, riempiendo un calendario che tra poco sforerà i 365 giorni all’anno. La fretta e la confusione che spesso guidano il nostro ambiente ci stanno facendo perdere di vista la storia del ve­ro ciclismo, la cui culla è indubbio sia l’Europa con le Classiche e i Grandi Giri. Ancora oggi se chiedi a qualunque corridore americano, cinese o afri­ca­no, ti dirà che sogna di correre in Europa. Non dobbiamo dimenticarci le nostre radici».

Il ciclismo di casa nostra non sta vivendo un grande periodo. La Lampre Merida, assieme alla Cannondale, è l’unica squadra World Tour che ci rimane, ma è sempre più di proprietà asiatica.
«La difficoltà che sta vivendo il vostro ciclismo, che mi permetto di definire un po’ anche mio in quanto mi sento mezzo italiano, è un vero peccato. Co­no­sco la vostra cultura, mi piace un sac­co la vostra mentalità e ritengo il ci­clismo italiano il più bello al mondo. L’italiano è di natura creativo, in bici emoziona e affascina perché sa sempre inventarsi qualcosa di diverso. Le squadre anglosassoni ci hanno superato sul piano della tecnologia e dei me­todi di allenamento, ma sono più fredde e io, sarà per le mie origini, prediligo nettamente il caldo. L’unica critica costruttiva che da esterno mi permetto di muovere al vostro movimento è che avete un po’ troppa paura di investire. Nel mondo di oggi se non si cambia ve­locemente, si rimane indietro. Se sarete in grado di chiudere il gap riguardante le innovazioni tecniche, grazie alla vo­stra esperienza tornerete ad essere i nu­meri uno. Come tutto nella vita il ci­clismo e il successo sono una ruota che gira, sono certo che il ciclismo italiano tornerà a brillare come merita. In fon­do mi piacete anche perché siete i più bravi a far funzionare le cose nei mo­menti difficili».

Che impressione hai avuto della squadra dai primi ritiri?
«Buonissima. Ho ritrovato l’ambiente familiare che conoscevo e un gruppo affiatato che, se va avanti nella massima categoria del ciclismo da vent’anni, qualche merito ce l’ha indiscutibilmente. La Lampre Merida è un bel team in cui c’è spazio per il divertimento quanto per il lavoro. Dobbiamo cercare di migliorare ogni giorno un po’ di più, in ogni aspetto, senza mai stare fermi né abbassare la guardia. Mi impegnerò al massimo come gli altri dirigenti e tutto lo staff, così che i corridori avvertano la nostra dedizione e diano a loro volta il cento per cento alla causa. Solo così arriveranno più risultati. L’ingranaggio deve funzionare in maniera lineare, per questo stiamo cercando di portare più chiarezza nei ruoli, un sistema di lavoro più schematico e una comunicazione più efficace al nostro interno. Una squa­dra è come un’azienda, per far funzionare tutto al meglio, per prima cosa bisogna strutturarsi a dovere».

Come ti trovi a lavorare con Bartoli, re­sponsabile della programmazione agonistica e della preparazione atletica?
«Molto bene. Ho conosciuto Michele l’anno scorso quando abitavo a Lucca, dove aveva base la MTN, e nel tempo libero uscivo in bici con il suo gruppo. Come allenatore lo conosco da meno tempo, ma ho cercato di coinvolgerlo maggiormente per stilare il calendario e selezionare i corridori per le varie corse. Lavorando a stretto contatto con loro, sa meglio dei tecnici come sta ogni atleta, come pedala e che margine di crescita ha. Mi è parso molto in gamba e disponibile, che sia carismatico non lo scopro ora, ma mi ha impressionato vedere come tutti lo ascoltano con attenzione quando parla ai ragazzi. Il rispetto e l’autorevolezza non sono facili da guadagnare, a lui riesce naturale».

Quali obiettivi vi siete prefissati per il 2014?
«Il nome e il numero di corse che vo­gliamo portare a casa l’abbiamo stabilito internamente, in linea di massima posso dire che con Rui Costa, Ulissi e Cunego vogliamo fare bene nelle classiche delle Ardenne; con Pozzato e Mo­dolo puntiamo alla Sanremo e alla pri­ma parte delle classiche. Puntiamo mol­to al Giro d’Italia, soprattutto in termini di vittorie di tappa. Per la classifica facciamo affidamento a Niemiec, ma siamo consapevoli di non essere al livello dei favoriti per la vittoria finale. Per il Tour de France stiamo costruendo una squadra importante attorno a Rui Costa. Né noi né lui conosciamo i suoi limiti in una corsa di tre settimane, ma la voglia di far bene non ci manca».

Ulissi quest’anno è chiamato a fa­re un ulteriore salto di qualità per affermarsi a livello internazionale.
«Proprio così. Sono certo ci riuscirà. È convinto e sa che questo è quello che tutti si aspet­tano da lui. Giustamente nelle stagioni passate non ha mai avuto grandi pressioni, è cresciuto piano pia­no, ora è arrivato il momento di far ve­dere quanto vale. Dentro di sè sa che fisicamente e moralmente è pronto a superare quest’altro step. In Australia ha fatto vedere di essere partito con il piede giusto, era il segnale che volevamo da lui».

Altri giovani su cui giustamente puntate molto sono Cattaneo e Wackermann.
«Sia Mattia che Luca hanno un grande po­ten­ziale. Devo ammettere che non li conosco bene, ma so che la squadra li segue da parecchio e da loro si aspetta molto dopo un’annata per diversi motivi sotto tono. Anche per loro il 2014 è un anno chiave».

Cosa chiedi al nuovo arrivato Modolo?
«L’ho conosciuto ad ottobre, al primo ritiro di Boario Terme e mi ha im­pressionato per la sua grinta. È molto deciso e con­vinto del suo potenziale, ha fame di imporsi. Ha vinto tanto ne­gli anni scorsi, spero faccia altrettanto con noi. Il suo atteggiamento in corsa, no­no­stante il salto nel WorldTour, non deve cambiare».

E da Pozzato cosa ti aspetti?
«Ha classe, deve usarla. Lo sa perché ne abbiamo parlato: deve lavorare di più in inverno e non distrarsi dai suoi obiettivi. Mi aspetto da lui una grande stagione tra Sanremo e Classiche. Co­me Cunego, ormai è grande e sa cosa de­ve fare per ben figurare, non serve che glielo insegni io. Sia Pippo che Da­miano devono impegnarsi di più, anche perché man mano che passano gli anni per ottenere risultati servono più sacrifici. Devo dire che Damiano l’ho visto già molto diverso dagli ultimi due anni. È tornato a vivere a Verona, ad allenarsi sulle sue strade, con le sue salite di riferimento e questo è un nodo cruciale per la sua carriera. Vedo in lui la voglia dei giorni migliori, spero la mostrerà a tutti alle Ardenne».

Chiudiamo con l’iridato Rui Costa.
«La sua vittoria al Campionato del Mon­­do di Firenze non mi ha sorpreso perché è un corridore completo e intelligente. Si è preparato a dovere e in ga­ra si è giocato bene le sue carte. Nella stagione scorsa ha vinto il Giro di Svizzera, due tappe torride al Tour e il mondiale sotto il diluvio. È un bravissimo ragazzo, con i piedi per terra, serio e professionale, molto deciso e motivato quanto disponibile. Gli si può toccare tutto ma non il suo programma di allenamento e le gare che ha messo nel mirino. È un ragazzo educato, pensate che la prima volta che è venuto in sede ha voluto salutare tutto il personale e dopo poco conosceva i nomi di tutti. Sono piccole cose, ma sono quelle che fanno la differenza tra un leader e un corridore qualunque. E poi si vede che è un tipo vero, è così naturalmente».

Considerata la tua esperienza nel mondo dei motori, cosa pensi dell’arrivo di Alon­so nel ciclismo?
«L’arrivo di uno sponsor nuovo fa bene al nostro ambiente. Detto questo, la squadra di Fernando dovrà seguire le stesse regole imposte a tutte le altre: un cognome noto e un budget imponente non devono favorire canali preferenziali. Si parla tanto di questo progetto, ma in pochi hanno sottolineato quanto Alonso e il suo staff hanno da imparare su questo mondo. Il ciclismo è uno sport diverso da ogni altro. Per organizzare un top team non bastano solo i soldi, c’è tanta strada da af­frontare, per questo mi ha sorpreso che non abbiano acquistato l’Euskaltel per fare un’esperienza graduale partendo da una struttura già consolidata. Sarà una bella sfida che seguirò con curiosità».

Si dice Alonso voglia portare molto dalla Formula 1.
«Le idee sono belle, ma vanno messe in pratica. La logistica del ciclismo è complicatissima, nelle grandi corse a tappe ci si sposta tutti i giorni e ci sono un sacco di persone che lavorano di notte per spostare l’arrivo e la partenza per il mattino successivo, figuriamoci se si dovesse spostare un paddock intero o ingigantire ancor di più eventi già colossali. Oltre a questi problemi pratici, il bello del ciclismo è il contatto di­retto che il pubblico ha con i ciclisti. È qualcosa di unico e prezioso, anche se in realtà non produce alcun incasso concreto, che non può essere snaturato. Senza pagare alcun biglietto, bambini e adulti possono avvicinare i loro idoli per portare a casa un autografo, un cappellino, una borraccia o una fo­to. Alonso è un campione intelligente e ha passione. Sicuramente porterà innovazioni importanti e noi per primi lo guarderemo con curiosità. Costruire una squadra di ciclismo è molto più faticoso che allestire una squadra di motociclismo o di automobilismo. Anzi per quella che è la mia esperienza, de­vo dire che una volta che hai im­parato a lavorare nel mondo del ciclismo, in qualsiasi altro sport la strada ti appare in discesa».

da tuttoBICI di febbraio, a firma di Giulia De Maio
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COMMENTI
5 marzo 2014 14:53 HIRO4
L'ultimo DS ad aver ottenuto risultati è stato Valerio Tebaldi. Pare una persona preparata e con le idee chiare, vediamo se riuscirà a tradurre in risultati le belle parole di questa intervista!

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