Da Dalto, una questione di... sedere

PROFESSIONISTI | 05/11/2013 | 09:01
È tutta una questione di sedere. Nel senso che fino a qui, fino a questo momento, non ha avuto granché fortuna: anzi. Per essere più chiari avrei dovuto digitare quella parola che il direttore Stagi non mi ha permesso di scrivere, e quindi traduco in sedere. Bene, Mauro Da Dalto non solo non ha avuto sedere, ma ha dovuto anche farselo rifare: non tutto, ma in parte.
«Proprio così - dice lui ironico come pochi -: mi faccio un sedere così tutti i santi giorni e poi, quando meno me lo aspetto, rischio di giocarmelo. Non per colpa dei miei colleghi, che in bicicletta appena possono un fondo così te lo fanno sempre volentieri, ma per un banale incidente, che poteva costarmi molto caro». Andiamo per ordine.
Se pensate a Mauro Da Dalto vi verrà subito in mente un faccione sorridente, il classico viso del gregario simpatico e altruista, il volto del lavoratore che dà anima e corpo per la sua squadra e che su e giù dalla bici riesce a far divertire i compagni.
Al Giro di California 2013, nonostante il suo capitano Peter Sagan abbia (come sem­pre) fatto faville, per una volta Mauro non ha sorriso, anzi ha sofferto e parecchio. Il 32enne di Vazzola (TV) ora ci ride su, ma quello che gli è accaduto il 13 maggio ol­tre­oceano rasenta il dramma.
Il giorno della seconda tappa del Tour of California il termometro sfiorava i 50 gradi. Per avere idea della temperatura dell’asfalto aggiungetene altri 20. Una giornata allucinante per tutto il gruppo, assurda e indimenticabile per Mauro, che rimane vittima di una grave insolazione e di un’ustione al gluteo sinistro.
«Ricordo solo il cartello dei meno 5 chilometri. Il caldo era infernale, pareva di avere il phon acceso in faccia. Era la mia quinta vol­ta al California, mai trovate temperature così elevate. Improvvisamente, mi si è spenta la luce. A 2 chilometri dall’arrivo ho avuto un collasso e sono finito a terra. Mi sono risvegliato in ospedale dopo sei ore. Sei ore di sonno, di coma. Ma il black-out inizia prima: non ricordo nulla degli attimi precedenti la caduta, ho un vuoto fra i meno 5 e 2 chilometri. Tutto mi è stato raccontato dopo. In ospedale, sono stato ricoverato con 43° di febbre, disidratato al massimo» racconta l’alfiere del team Cannondale aiutato dalle ricostruzioni dei direttori sportivi Conte e Sci­rea, oltre che dal medico Magni.
«Per abbassare la temperatura mi hanno collocato per tre ore su un lettino di ghiaccio».
Non fosse bastato il collasso... «Cadendo è come se mi fossi seduto su una graticola per fare la grigliata, ho riportato una pesante ustione alla natica. I medici in America mi avevano prescritto delle medicazioni pensando fosse di 1° o 2° grado, ma tornato in Ita­lia all’Ospedale di Conegliano hanno decretato che l’ustione era addirittura di 3° grado. Per questo il 18 giugno ho dovuto sottopormi a un’operazione ricostruttiva al Centro Grandi Ustionati di Padova per evitare infezioni e permettere ai tessuti di guarire».
Dopo una settimana era già in bici. Prima però 45 giorni da incubo, rigorosamente a pancia in giù. «Non potevo appoggiarmi o sedermi in alcun modo. Se mi fossi rotto un braccio o una gamba in confronto sarebbe stata una passeggiata. Non auguro un dolore del genere neanche al mio peggior nemico. Quando avevo due anni mi era capitata una situazione analoga, mi ero rovesciato un pentolone di salsa di pomodoro bollente preparata da mia madre sulla gamba sinistra, ma non ricordavo il male che si provava. Ora invece ho ben chiaro quanto ho pianto per il dolore, nonostante abbia 30 anni in più rispetto all’epoca della salsa».
Mentre una buona parte dei corridori erano a rosolarsi dall’altra parte del mondo, i loro colleghi al Giro d’Italia gli altri battevano i denti dal freddo e assistevano all’annullamento delle tappe di montagna per neve. «Da un estremo all’altro. Il nostro è uno sport che ha alla base la sofferenza. Siamo eroi o incoscienti? Probabilmente entrambe le cose. A differenza di altri sport, il ciclismo è difficile che si fermi per il troppo caldo o il troppo freddo e, in parte, va bene così per­ché è una nostra peculiarità ma senza esagerare. Dovremmo porci dei limiti da non superare, per evitare - per quanto in nostro potere - di farci male. Spesso non pensiamo ai rischi che affrontiamo ogni giorno, ma di­savventure come quella che ho vissuto io devono farci riflettere».
Mauro ha dovuto saltare il Tour de France e molti altri appuntamenti che aveva in programma, è ritornato alle corse solo alla fine del mese scorso. «Dopo il periodo di stop forzato sono tornato ad allenarmi a pieno regime nella speranza di disputare un buon finale di stagione. Ho dovuto aspettare pa­recchio per riattaccare il numero sulla schiena perché i medici non mi davano l’idoneità: l’insolazione che ho avuto non poteva essere sottovalutata, ma ora finalmente pos­so tornare in gruppo con una chiappa nuova di zecca». E con la speranza di avere an­che un po’ di… sedere.

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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