Malacarne, ovvero l'estate di Calimero

PROFESSIONISTI | 09/10/2013 | 09:04
Calimero è diventato grande. Non ci riferiamo al noto personaggio animato del Caro­sello nato dalla matita dei fratelli Pagot che pubblicizzava il detersivo  «Ava, come lava...» e che quest’anno ha compiuto 50 anni, ma a Da­vide Mala­carne che di anni ne ha poco più della metà, 26. Veneto originario di Lamon (Bl) al quinto anno tra i professionisti, durante l’estate è diventato papà ed è convolato a giuste nozze con Ales­sandra. A completare il quadro della perfezione gli manca solo di ritrovare la vittoria e una squadra per la prossima stagione, dopo tre anni alla belga Quick Step e due alla francese Europcar. 172 cm per 61 kg, con un passato da cam­pione del mondo di ci­clocross, nella centesima edizione della Grande Boucle è stato il salvatore della no­stra Patria ci­clistica. Mi­glior italiano nella generale vinta da Chris Froo­me, 49° nonostante il suo ruolo fosse di gregario, o meglio angelo custode di Pierre Rolland. Come il pulcino piccolo e nero a cui sente di assomigliare, tante volte è letteralmente  caduto nel fango, ma si è sempre rialzato. Anche la piccola Aurora crescendo lo capirà: non c’è Pulcino Pio che tenga, Calimero è un’altra cosa! Lo testimoniano foto, video e articoli di giornale, co­me questo in cui papà si racconta a cuore aperto, e che un domani la bimba potrà leggere seduta sulle sue gambe.
Le storie bisogna raccontarle dall’inizio. Co­me hai scoperto la passione per il ciclismo?
«Me l’ha trasmessa papà, cicloamatore. Ho iniziato a pedalare a cinque anni e mezzo, nessuno in famiglia ha mai praticato questo sport a livello agonistico: né mamma Gabriella, né papà Adriano, né i miei fratelli, Marco, che è maggiore di me, e Michelle, che all’epoca non c’era ancora. Un giorno vidi i ragazzini del paese correre e rimasi affascinato dalle bici. Così iniziai la mia avventura con il mio “carro armato”, una biciclettina piccola ma con le ruote grosse, di stampo vecchio e di un colore orribile. Della pri­ma gara da G1 ricordo il terribile mal di pancia prima del via, che agitazione... Da quel mal di pancia sembra passata una vita. Anno dopo anno sono cresciuto e migliorato finché nel 2005 a St. Wendel è arrivata la maglia iridata nel ciclocross, correvo tra gli juniores, un’emozione im­mensa. Quel risultato e i successivi, raccolti nella stagione seguente tra i dilettanti, mi hanno permesso di capire che questo sport sarebbe diventato il mio lavoro».
Il passaggio nella massima categoria risale al 2009.
«Esatto. La Quick Step mi seguiva da quando ero juniores, dopo tre mesi fra i dilettanti ho iniziato a cogliere dei risultati importanti in maglia Zalf e così, durante la Settimana Tricolore 2006 in Friuli (in cui concluse al quinto posto la prova su strada, ndr), ho firmato il mio primo contratto da professionista, che prevedeva il passaggio dall’agosto 2008 in qualità di stagista. Le prime impressioni tra i big? Ho iniziato subito nel peggiore dei modi: mononucleosi. L’an­no successivo è andata decisamente me­glio e nel 2010 grazie a una fuga ho colto la mia prima vittoria da professionista, conquistando una tappa alla Vuelta a Catalunya».
Poi cos’è successo?
«Ho vissuto un bel periodo in cui ho colto buoni piazzamenti, finché alla Freccia del Brabante è successo il patatrac. Dopo 30 chilometri dal via sono caduto e mi sono rotto entrambe le braccia: capitello radiale a destra e scafoide a sinistra. Non male vero? 40 giorni fermo e tre settimane per smaltire la delusione. Nel riprendere, ho voluto strafare e mi è tornata la mononucleosi. Sono uno che si allena moltissimo, forse troppo, e quella volta avevo davvero esagerato. Mi sono veramente “ammazzato” in allenamento e ho buttato via tutta la stagione 2010 correndo solo una quarantina di giorni, compresa la Vuelta con la mononucleosi. Nel 2011 ho sofferto per l’allergia, mai avuta prima in vita mia. Per farla breve sono stato un po’ sfortunato e, tra uno sbaglio e un infortunio, ho perso più di un anno di attività ad alto livello. Final­mente ora mi sto riprendendo, mi man­ca ancora quel pizzico per essere coi migliori, ma sono sulla strada buona per ritornare tra loro. Sono sempre sta­to un combattente, da giovane portavo a casa almeno due-tre vittorie all’anno quindi per quanto raccolto tra i professionisti posso essere soddisfatto solo in parte».
Nel prossimo futuro con che maglia ti ve­dremo gareggiare?
«Bella domanda. Non lo so, davvero. Sono nella classica fase di “stand-by”. Alla Europcar sono in scadenza di contratto, mi sono trovato molto bene e devo dire grazie a Bernaudeau per la fi­ducia concessami quando la Quick Step non mi ha riconfermato, ma a questo punto della mia carriera mi piacerebbe ritornare in un team World Tour per disputare corse più adatte alle mie caratteristiche e perché ritengo di essere cresciuto molto in questi ultimi due anni. Ho sempre corso per squadre straniere e non mi dispiace, anzi. Preferisco scoprire realtà diverse da quella italiana, fare nuove esperienze di vita, imparare lingue che non conosco e scoprire nuo­ve frontiere. Mi adatto a tutto e mi sen­to “internazionale”».
Anche se sei giovane, hai già maturato pa­recchia esperienza nelle corse a tappe. Pre­ferisci le corse di un giorno o i grandi giri?
«Ho preso parte a due Giri d’Italia, due Tour de France e due Vuelta a España. Tutti portati a termine, a parte il Giro 2009 in cui ho dovuto alzare bandiera bianca a due giorni dalla fine a causa di una caduta. Sono un corridore di fondo e abbastanza completo, mi difendo bene nelle corse a tappe dure e in quelle di un giorno impegnative, come le classiche delle Ardenne. Tra i tre grandi Giri preferisco la Vuelta, anche se sulla carta è il meno importante: da correre è il più piacevole perché c’è meno stress. Chia­ramente il Giro per un corridore italiano è qualcosa di speciale e il Tour è il Tour, la Grande Boucle, la corsa delle corse, quella che ti da più notorietà, fi­gurarsi militando per una squadra francese... Personalmente mi piacciono mol­to corse a tappe anche brevi come il Gir­o di Po­lonia e il Tour Down Under. Ve l’ho detto che so­no in­ter­nazionale!».
Ti manca il fuo­ri­strada?
«Diciamo che in Italia non te lo fanno mancare perché purtroppo nel nostro paese conta solo la strada, l’unica specialità che offra veramente prospettive per il futuro, visibilità e soldi. Dispiace perché il ciclismo è fatto di tante discipline fantastiche, dalla pista alla bmx, che andrebbero coltivate, mentre ai giovani non vengono nemmeno proposte. Ho bellissimi ricordi del fuoristrada, ma ormai ho trovato la mia dimensione nella strada. Detto questo, a un ragazzo che si avvicina al nostro sport consiglierei di provare tutto il possibile perché i terreni su cui scoprirsi campione sono innumerevoli. E se non si diventa campioni, si può semplicemente diventare buoni corridori e togliersi co­mun­que delle belle soddisfazioni».
A maggio è nata Aurora, ad agosto hai sposato Ales­san­dra. Che estate ricca!
«Unica. Diventare papà è un’emozione indescrivibile e una grande responsabilità. Le prospettive di vita cambiano: non devi più pensare per te, ma per la tua famiglia. La paternità mi ha dato nuove motivazioni e stimoli an­che per quanto riguarda il ciclismo, ma mi ha fatto venire le oc­chiaie. Ho trascorso un mese sen­za dormire, la piccola mi ha messo ko (scherza, ndr). Fan­ta­sti­co è stato anche il matrimonio ce­lebrato dall’amico don Daniele Laghi, il don dei ciclisti, e i giorni di festa che l’hanno accompagnato. Ho conosciuto Alessandra anni fa tramite amici, poi ci siamo persi di vista finché nel 2009 ci siamo ritrovati ed è ricominciato il no­stro rapporto. Con lei da tre anni sono tornato a vivere a Feltre, il paese in cui sono nato, e dove sto costruendo una fantastica famiglia. Prima di conoscermi, Ale non sapeva neanche com’era fatta una bici, ma ora si è appassionata al ciclismo. Prima che nascesse Aurora qualche sera uscivamo in bici a fare un giretto, tra un po’ (bimba permettendo) torneremo a farci qualche pedalata insieme. Prima però ci aspetta la luna di miele a ottobre alle Canarie, probabilmente a Tenerife».
Manca solo la vittoria perché il 2013 sia il tuo anno perfetto.
«Eh, sì. Continuo ad arrivarci vicino, a raccogliere piazzamenti, ma bisogna proprio che ritrovi il successo. Con tutti gli incidenti di cui abbiamo parlato, mi sono perso non solo fisicamente, anzi forse di più a livello mentale. Ho dovuto combattere una sorta di depressione sportiva in cui mi avevano portato i continui infortuni; da due anni a questa parte mi sono ritrovato, grazie a stimoli nuovi e alla voglia di raccogliere quello che ho sempre desiderato da bambino. Non ho un programma ben definito per il finale di stagione, ma mi sto allenando come si deve per farmi trovare pronto in qualsiasi corsa verrò schierato. Avrei vo­glia di mettermi in mostra a Il Lom­bardia, ma non so bene con che corse ci arriverò nelle gambe. Ad ogni modo spero proprio di mettere la ciliegina sul­la torta di quest’annata superlativa».
Come trascorri il tempo libero?
«Ho tanti interessi, su tutti il vino e la cucina, sia che si tratti di mangiare che di cucinare. Fino a qualche tempo fa ero molto goloso, ora per fortuna passo più tempo ai fornelli che a tavola. Non ho un piatto forte, ma dicono che cucino bene il risotto. A me in realtà piace sperimentare e a mia moglie tocca fare da cavia. Guardo poca televisione e uso internet giusto per andare su Facebook e Twitter; al computer preferisco un bicchiere di vino in compagnia. Al momento però, la mia passione più grande è mia figlia, passo ore a guardarla e a giocare con lei».
Oltre al ciclismo segui altri sport?
«Un po’ di tutto, ma nessuna disciplina in particolare. Mi piace lo sport in generale. Tifo Inter, ma non seguo molto il calcio. Se trovo qualche competizione da vedere in tv la guardo, ma non le cerco appositamente».
In cosa sei diplomato?
«Purtroppo ho abbandonato la scuola dopo la terza media, non per la bici, semplicemente non ero una cima».
Il luogo del cuore?
«Le Dolomiti sono il mio habitat naturale. Spesso mi chiedono perché d’inverno non vado ad allenarmi in qualche posto caldo, ma io adoro le mie zone. Meglio stare a zero gradi vicino casa, che a 15 gradi lontano da Feltre. Per di più qui non manca nulla: pianura, salite brevi, salite lunghe e un paesaggio davvero mozzafiato».
Canzone e film preferiti?
«Non ne ho in particolare. Per quanto riguarda la musica seguo da quando ero bambino Nek, parlando di cinema il primo titolo che mi viene in mente è Blow».
Cosa hai sul comodino?
«Una foto mia e di mia moglie a Mo­na­co e il telefono che deve essere sempre a portata di mano. A casa non ho tempo di leggere libri, ma ne ho uno sempre in valigia per quando sono in ritiro o alle corse perché, sembrerà strano, lì abbiamo più tempo libero. Mi piacciono i gialli di James Patterson e i libri di cucina».
Il sogno nel cassetto?
«Per quanto riguarda la vita privata spe­ro che la mia famiglia, in primis mia figlia, abbia una vita serena e felice. Dal punto di vista lavorativo, voglio tornare a vincere. Qualsiasi corsa? No, vorrei una tappa in un grande giro o una corsa importante. Sai, anche se sono sempre stato scarso, sono ambizioso (ride, ndr)».
Per finire, come spiegherai ad Aurora che ti chiamano Calimero?
«Le dirò che a papà hanno affibiato questo soprannome perché da bambino ero piccolo e tozzo, con la carnagione scura, i capelli a scodella che ricordavano vagamente il guscio rotto di un uovo, insomma gli assomigliavo. Ho pronti da farle vedere un sacco di cartoni, libri da leggere, pupazzetti per giocare e qualsiasi al­tra cosa che riguarda Ca­li­mero perché gli amici da sempre mi regalano ogni cosa che ricordi questo simpatico personaggio   nel quale a ben vedere mi ci rivedo».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di settembre
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