DA TUTTOBICI. Peter Pan Sagan

| 30/07/2012 | 09:58
Va come una moto, anche se lui in moto ci sarebbe voluto andare. Funambolo, folletto, istrione, fenomeno, trascinatore, au­ten­tico talento del ciclismo, con quella faccia da Peter Pan e la fame del fuoriclasse. Fa cose mostruose, con la facilità dei predestinati. Vince, perché gli riesce semplice. Perché per Peter Sagan è molto più facile accelerare che frenare. La sua vera passione non è il ciclismo, ma il motocross. Il suo idolo non è cer­to Lance Armstrong, ma Tony Cairoli.
Peter Sagan è il volto nuovo del ciclismo mondiale, un bimbo dalla faccia pulita che all’età di 20 anni approda in casa Liquigas, dopo un anno trascorso alla Dukla Trencin Merida, con la qua­le conquista le sue prime tre corse da professionista (il Gp Kooperativa Mi­ko­lasek e due tappe del Mazovia Tour).
Peter Sagan ha occhi color del cielo che risplendono felici e sicuri su un fi­sico compatto e potente. «Non so an­cora chi sono e come sono. Spor­ti­vamente parlando sono davvero tutto da scoprire. So solo che quando vado in bicicletta io penso solo ad una cosa: vincere». E vince il ragazzino. Al suo primo anno con la maglia della Liqui­gas si porta a casa due tappe alla Pari­gi-Nizza, una al Giro di Romandia e due al California. Non male per il pupo slovacco. «Il mio sogno? Correre le corse più importanti del pianeta. Non ho mai corso una Sanremo, una Liegi, un Fiandre, una Amstel. Ho corso solo la Roubaix e mi è piaciuta da pazzi. Prima o poi io una corsa così la vincerò». Idee chiare, timore nessuno.
Pensate ai tanti giovani talenti che stanno emergendo a livello internazionale. Fatto? Allora su quale scommettereste? Se non vi piace rischiare, puntate tutto su Peter Sagan, anche se la sua quota non può che essere bassa considerato che a soli 22 anni, in quattro stagioni da professionista, ha portato a casa più di 30 corse e titoli di ogni livello (stiamo appositamente sul vago con la cifra perché siamo sicuri che dal momento in cui stiamo scrivendo a quello in cui starete leggendo quest’intervista avrà centrato qualche vittoria in più delle attuali, ndr).
In questa stagione, giusto per gradire, ha fatto sue una tappa al Giro del­l’Oman, una alla Tirreno-Adriatico, una alla Tre Giorni di La Panne, cinque (su otto!) al Giro di California e quattro al Giro di Svizzera. Ha rac­colto ot­timi piazzamenti nelle Clas­si­che, le cor­se per cui sembra essere na­to: 4° alla Mi­lano-Sanremo, 2° alla Gand-Wevel­gem, 5° al Fiandre, 3° all’Amstel Gold Ra­ce, e coltiva l’am­bizione più che realizzabile di superare i 15 sigilli del 2011.
Già a lottare tra i migliori nelle corse monumento e negli arrivi delle grandi corse a tappe, quando ha un numero attaccato sulla schiena non ha timori reverenziali per nessuno. E se in corsa è un toro che non pensa altro che a vincere, non si risparmia anche giù dalla bici per regalare ai tifosi lo show che da bambino si aspettava guardando i campioni che l’hanno fatto appassionare a questo sport. Abbiamo percorso un viaggio alla scoperta di questo piccolo grande ragazzo slovacco della Liquigas Cannondale dal sicuro futuro, forse già presente, da campione. A guidarci? Lui stesso, con un buon italiano con tanto di inserti del dialetto veneto e la battuta sempre pronta.

Sei fenomeno in bici, ma rac­contaci qualcosa di te che non sappiamo...
«Non saprei, non posso presentarmi da solo. Dovreste chiedere a chi mi conosce bene, come i miei compagni di squadra. Se sono timido? Di sicuro no, anzi appena prendo un po’ di confidenza sono un ragazzo molto espansivo. Dicono che sono divertente, in effetti mi piace ridere, fare gruppo, chiacchierare in compagnia. Come corridore in­vece penso di essere adatto alle classiche di inizio anno, di tener duro in salita e di avere un buono spunto veloce. Sono uno completo... Vado piano do­vunque (scherza, ndr)».
Com’è nata la tua passione per il ciclismo?
«Ho seguito le orme di mio fratello Juraj, che ha iniziato a correre e vincere fin da ragazzino. Ho cominciato a pedalare verso i 4 anni per divertirmi, a gareggiare a 9 quando l’allenatore di Juraj un giorno, mentre tornavamo da una sua gara che ero andato a vedere, mi ha proposto di provare. In inverno mi allenavo con gli sci di fondo, d’e­sta­te con la bici. Come sono andate le prime corse? Le ho vinte quasi tutte, ma dopo 3-4 anni volevo smettere per dedicarmi solo alla discesa libera o al downhill che mi sembravano più divertenti. I miei parenti mi hanno impedito di prendere questa strada perché ritenevano queste discipline troppo pericolose e una bici da discesa era troppo costosa per le possibilità della mia famiglia, così ho proseguito con la mtb (in questa specialità nel 2008 ha vinto il Campionato del Mondo, il campionato europeo e il campionato nazionale nella categoria junior, ndr) e la strada».
Ti ricordi la tua prima gara?
«A Bratislava, la città capitale della Slo­vacchia. Staccai tutti e arrivai con un relativo vantaggio a braccia alzate tutto solo. Ero davvero piccolo, ero nella categoria mini. Si dice così? (sorride, ndr). Ho una foto troppo buffa che im­mortala quella prima vittoria: indossavo un casco che sembrava un elmetto da guerra e un completino che mi stava larghissimo perché la squadra non aveva a disposizione divise a misura di bambino, scarpe da ginnastica e la bici che con papà avevo comprato al supermercato e colorato di verde metallizzato».
Da piccolo cosa sognavi di diventare?
«Da bambino non avevo grandi sogni. Ho studiato informatica all’Istituto Tec­nico Amministrativo. A 11 anni ho fre­­quentato un corso di recitazione, in­somma qualche lezione per sentirmi un attore, ma è stata un’esperienza molto breve... Fosse durata di più magari oggi vivrei a Hollywood! A parte gli scherzi, prima il ciclismo per me era un semplice hobby, da qualche anno è diventato il mio lavoro e mi ritengo molto fortunato perché posso vivere della mia passione. Credo per me sia meglio continuare a pedalare a lungo perché non avrei proprio idea di cos’altro fare».
Quando tagli il traguardo a cosa pensi?
«È difficile da spiegare. Durante la corsa cerco di capire come sto e penso come fare per riuscire vincere, all’arrivo dipende da come si è conclusa la gara. Se arrivo primo, sono contento e ovviamente più sereno per le gare successive. Se perdo perché ho commesso un errore faccio di tutto per im­parare dallo sbaglio, cerco di accumulare esperienza per non ripeterlo in futuro; se invece perdo perché gli avversari dimostrano di essere più forti di me pos­so sì dire di essere dispiaciuto, ma certo non ar­rab­biarmi».
Chi ti senti di dover ringraziare per dove sei arrivato?
«In primis la mia famiglia (Peter è l’ultimo dei quattro figli di mamma Helena, che fino a poco tempo fa mandava avanti un piccolo supermercato a Zilina, e papà Lubomir che aveva un ristorante-pizzeria sempre nella cittadina slovacca che si trova sul confine polacco: Milan di 32 anni, Daniela di 30 e Juraj di 23, ndr), mio fratello Juraj in particolare perché per motivi d’età e ciclismo con lui sono cresciuto dividendo tutti i momenti importanti della mia vita, anche sportiva. Un pensiero devo mandarlo anche ai miei allenatori in Slovacchia che sono riusciti a farmi mi­gliorare e mi hanno permesso di prendere parte alle corse fuori dal mio Pae­se, dove la concorrenza era più alta che in Slovacchia, e alla Liquigas che mi ha portato in Italia e continua a farmi crescere al meglio (al suo primo anno da juniores disputò i mondiali in Messico e si piazzò quarto alle spalle del terzetto italiano composto da Ulissi, Ratto e Fa­villi, in quell’occasione fu notato da En­rico Zanardo, tecnico di lungo corso e grande talent scout, ndr). La squadra sta credendo molto in me, da quest’anno mi ha permesso di avere vicino anche il mio massaggiatore di fiducia, io do il massimo per ripagare tecnici e dirigenti della stima che nutrono nei miei riguardi».
C’è qualcuno a cui ti ispiri?
«Riconosco un mo­del­lo da se­guire in Milan, il mio fratello maggiore. Ha 10 anni in più di me, lavo­ra da quando io ero pic­colo ed è uscito di casa a soli 19 anni. Mi ha sempre consigliato molto, per me è come una guida senza la quale non sarei dove sono ora».
Un collega che apprezzi?
«Non penso troppo agli altri, ma ci so­no molti ragazzi forti in gruppo. Dai miei compagni Moreno Moser ed Elia Viviani ad avversari, altrettanto giovani e veloci, come John Degenkolb, Marcel Kittel ed Edvald Boasson Hagen. Tutti meritano rispetto, nei prossimi anni ve­dremo chi sarà il più forte. Mi piace sfidare “quelli famosi”, intendo dire quelli dal nome importante perchè se li batto si dirà Sagan ha battuto il campione X, mentre se vinco davanti a degli sconosciuti al mio successo non è data la stessa rilevanza. E poi solo battendo i mi­gliori posso dimostrare di essere uno di loro».
Hai un legame speciale con tuo fratello Ju­raj, in squadra dicono che non vi staccate mai...
«Beh, siamo fratelli! Penso sia normale essere particolarmente uniti tra fratelli... Non corriamo spesso assieme, facendo due calcoli pas­so più giorni con altri compagni che con lui, ma quando possiamo dividiamo volentieri la camera. Quando si è quasi tutto l’anno lontano da casa è molto importante avere vicino uno di famiglia, da anni abitiamo da soli (fino ad aprile Peter e Juraj dividevano un appartamento vicino a Co­ne­gliano Veneto, ndr) e anche per questo trascorriamo molto tempo assieme, sia che si tratti di preparare da mangiare o di uscire con gli amici per prendere un caffè».
Facciamo un bilancio dei quattro anni che hai trascorso nella massima categoria.
«Sono passato professionista abbastanza giovane, all’inizio non è stato facile ma guardandomi indietro sono contento di come è andata. A 20 anni sono ap­prodato in casa Liquigas, dopo un anno trascorso alla Dukla Trencin Merida con la quale ho conquistato le mie pri­me tre corse da professionista. Col tempo ho imparato la lingua italiana e ora in squadra mi sento come in famiglia (Peter ha un contratto che lo lega per almeno un’altra stagione con il team di patron Zani, ndr). La prima vittoria in maglia verdeblu alla Parigi-Nizza è stata una grande sorpresa e una vera gio­ia, poi ne sono arrivate tante altre. A suon di risultati ho alzato il mio grado in squadra, l’anno scorso ho vinto abbastanza e anche in questa stagione finora sono andato bene. Sono soddisfatto di come sono andato nelle classiche: è ve­ro che non ho vinto, ma per imporsi su certi traguardi ci vuole esperienza e io ne devo accumulare ancora. Anno dopo anno per me andrà sempre meglio».
In California sei diventato una star. Se continui a vincere lo diventerai anche qui da noi...
«In America sono testimonial della Can­nondale, azienda che punta molto al marketing e all’immagine e al Tour of California ho vissuto delle giornate splendide. Vi hanno detto che andavo al podio impennando? È vero, mi piace regalare spettacolo al pubblico. Quan­do da bambino andavo a vedere le gare mi aspettavo da chi vinceva un po’ di show e ora che mi trovo dall’altra parte mi sembra giusto cercare di strappare un sorriso a chi è venuto in strada ad applaudire me e gli altri corridori. È una forma di ringraziamento e mi diverte. Mi chiedi se sono popolare in Slo­vacchia? Nel mio paese il ciclismo non è molto praticato, ma anche lì sono ab­bastanza conosciuto, soprattutto negli ultimi due anni. Diciamo che se vado a fare la spesa la gente mi riconosce e mi guarda. Questo però non mi piace troppo. Amo fare lo showman, ma tengo ai miei spazi e alla mia privacy».
Che legame hai con l’Italia?
«Anche se non vivo stabilmente qui, ormai è la mia seconda patria perché ci passo molto tempo per i ritiri della squadra. L’arrivo nel vostro paese nel 2008 non è stato per niente semplice: non parlavo e non capivo niente, alla sera andavo a dormire con il mal di testa perché passavo le giornate concentrato a cercare di apprendere almeno qualche parola. Dopo tre mesi in “casetta” con i ragazzi della Marchiol ho imparato la lingua e mi sono sbloccato, da lì è stato tutto più facile. Or­mai so anche un po’ di veneto, ma lo uso solo per scherzare con gli amici. Non va bene per rilasciare un’intervista (arrossisce alla nostra richiesta di dirci un’espressione veneta che conosce, ndr). Il ds Mariuzzo mi ha insegnato a dire: “zigo zago zigo zago, mi no pago mi no pago”. Ogni volta che dobbiamo festeggiare una vittoria ormai ur­liamo tutti assieme questa frase».
Con quale frequenza riesci a tornare a casa?
«Non molta. Prendiamo per esempio quest’anno: da gennaio ad aprile sono stato via, dopo le classiche sono tornato a casa per una decina di giorni, poi so­no ripartito per la Ca­li­fornia quindi sono rientrato in Italia per il ritiro organizzato a Passo San Pellegrino, prima di volare in Svizzera. Prima del Tour de France ho fatto una toccata e fuga, solo cinque giorni per disputare i campionati na­zionali e al termine della Grand Boucle vedremo come saranno i programmi. Dovrò concentrarmi per le Olimpiadi ma spero, tra una gara e l’altra, di riuscire a trascorrere qualche altro giorno in famiglia. Al termine della stagione, quando io e Juraj avremo le ferie, non so neanche se organizzeremo una va­canza con altri corridori come l’anno scorso o avremo solo voglia di tornare a Zilina».
Un giorno ti piacerebbe disputare il Giro d'Italia?
«Quest’anno avevo fin dall’inizio in programma il Tour de France che è la corsa più grande che ci sia, la più famosa e la più vista in tv quindi non mi la­mento, anzi. In futuro mai dire mai, ma per ora, tra le due, preferisco la corsa a tappe francese. È la mia prima volta e sarà senz’altro una grande esperienza. Se penso di vincere una tappa? Vado per quello, la squadra mi porta per vincere e io ci proverò come sempre».
Come trascorri il tempo libero?
«Durante il periodo delle corse tra allenamenti, trasferte, impegni con sponsor e interviste ne ho davvero poco e arrivo a casa “fi­nito” per pensare a coltivare de­gli hobby. Mi limito a qualche uscita con gli ami­ci e a guardare qualche gara di motocross in tv. In va­canza mi diverto praticando sport co­me lo sci e lo snowboard d’inverno e di­lettandomi con le moto d’acqua d’e­state».
Ora una domanda che interesserà alle lettrici. Sei fidanzato?
«No. Dici che ho tante fan? Forse sì, ma ora non ho troppo tempo per stare al cellulare e fare tutte le cose che comporta l’avere una ragazza».
È vero che alle olimpiadi il CT della na­zionale slovacca voleva farti correre sia la prova su strada che quella di mtb?
«Io stesso volevo disputarle entrambe (la prova su strada è in programma a Londra il 28 luglio, quella di cross country il 12 agosto, ndr), purtroppo pe­rò non abbiamo ricevuto la wild card. A quanto ho capito ce n’erano so­lo tre disponibili per tutti gli sport olimpici... Quindi sarò al via solo della prova su strada. A quale risultato pun­to? Sinceramente ora voglio restare concentrato sul Tour, poi ci penserò».
La tua gara dei sogni?
«Non ne ho una preferita però mi piacciono molto le classiche, Fiandre e Sanremo in particolare. Di corse a tappe amo il California come le altre gare in America, ho già vinto alla Vuelta e ora sto scoprendo il Tour che tutti dicono essere “un’altra cosa”, hors categorie».
Come ti immagini nel futuro?
«Non lo so, davvero. Sono uno che vi­ve il presente, penso a come sono adesso e ho come motto “chi vivrà, vedrà”. A cosa serve pensare cosa ne sarà di me tra due o vent’anni? Lo vedremo, per il momento è inutile fare ipotesi».

da tuttoBICI di Luglio
a firma di Giulia De Maio

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