| 13/05/2012 | 08:52 Quel giorno, il 22 maggio '98, venerdì, Marco pensava che giù in Campania sarebbe stato certamente diverso. Troppo aspro il dolore, memoria fisica di un panorama straordinario che sarebbe risultato tale solo per gli altri, come quello che aveva conosciuto l' anno prima su quelle strade, al Giro '97, quando era caduto nella discesa del Chiunzi, per colpa di un avventato gatto grigio. Ed avrebbe lì lasciato brandelli di pelle ed il suo sogno di gloria infranto. L'addio, a Cava dei Tirreni, in mesto pellegrinaggio, con un ginocchio in rovina. Ma quel giorno nuovo lì, a Lago Laceno, 6. tappa, prima salita più o meno vera del Giro, non lo chiamerete certo salita l'arrivo di qualche tappa prima a Monte Argentario, Marco aveva prefigurato il primo attacco. C'era Michele Bartoli, al suo primo giorno al comando, finalmente una maglia rosa in carriera per 'Michelino', dopo lo sprint di Fiuggi. Ma Bartoli era uno scalatorino didascalico, buono per le cotes della Vallonia e delle Ardenne, uno che dopo i mille metri di altura soffriva già di vertigine. Non era da temere, a Lago Laceno, sotto il Cervialto. Marco, il capitano della MercatoneUno, il numero '101', sembra il numero di un autobus fatidico, di un tram chiamato desiderio, era certo di vincere, lo avrebbe confessato poi in uno sguardo deluso, dopo l' arrivo, al traguardo sul Lungolago. Pensava che dopo Montella e Bagnoli Irpino, dopo lo splendido boulevard alberato di platani, la svolta secca a sinistra, la svolta a destra, o è la stessa traiettoria del buon ricordo, ci fossero solo i tornanti a spire - sette, incisi su pietra come le virtù cardinali, come su un piccolo Stelvio -, di una salita a raccontare di lui e della sua solitudine astrale di Capricorno. Giustiziato, con delicatezza, anche un iniziale tentativo dell' aristocratico Bugno che cercava di tirare innanzi il suo capitano Tonkov, Marco Pantani avrebbe preso così il suo primo volo nel Giro del '98. Sono passati quattordici anni, e di quel Giro in campo abbiamo ancora solo due saggi come Mazzanti, per metà napoletano tra l' altro, e Bruseghin. Ma le tracce sono ancora intatte in noi. Basta metaforicamente appoggiare, come gli indiani, l'orecchio sull'asfalto, per sentirlo arrivare. E' il tam tam del cuore, non è un rintocco vano, è ancora musica, è Wagner, non dodecafonìa. 'E' scattato Pantani...'. Ed in quel Giro, quello unico che avrebbe vinto da trionfatore con le imprese di Piancavallo e di Montecampione - un traguardo eponimo, ancora, quello -, Pantani avrebbe consegnato il suo primo assolo alla montagna dell' Irpinia. Regalava al vento il suo cappellino gettato via, come faceva quando voleva andare alla grande, e non c'era verso di seguire la sua scia. Dov'è Leblanc, il francese, e dove Bartoli, la maglia rosa... Pantani era il futuro sin troppo atteso. Gli altri, il passato che si faceva forza del restare affastellato in un plotoncino di arrotini. Il volo breve, quello a finire prima il calvario della salita, era il suo: 'Pantani è solo', per la prima volta, in quel Giro. Ma proprio lì da noi, Marco Pantani, che con la sorte ostile aveva avuto come noto ben altro da ridire in passato, avrebbe conosciuto - dopo la stupenda azione di fuga - l' incubo di un sogno troncato. Già, en danseuse, sul Valico che sarà a lui intitolato, sul Colle Molella, come fosse un Alpe d' Huez, l' Alpe di tutti gli italiani ancheall' estero, Pantani era miracolosamente solo... Ma la Maddaloni-Laceno del 22 maggio non finiva affatto sulla montagna, come Pantani si augurava in fondo che potesse essere anche per la vita di un uomo, senza replica, non solo di una ciclista. C'era da far di conto con la spianata finale, con il morbido altopiano di un paio di chilometri e qualcosa in più. Prima del Lungolago. Ancora negli occhi, lo spazio immenso, passo dopo passo, la pace del verde, ad aspettare Pantani che non sarebbe però arrivato primo. Il falsopiano, diamine, avrebbe rinfocolato gli ardori degli inseguitori, quando il cuore si sarebbe placato. Si sarebbe fatto più in là, Marco, il '101', quando sarebbe arrivato un trenino ad alta velocità: il falsopiano, già, la pianura falsa. Falsa come buona parte della vita. Ed era Zulle, lo svizzero della 'Festina' che contro il tempo era un mago ma che della salita non aveva particolare devozione, nonostante avesse vinto le due ultime edizioni della 'Vuelta Espana', nel '96 e nel '97, a sancire un contropiede perfetto ed a vincere in solitudine. Facendo sua anche la maglia rosa. Solo quarto, Pantani, quello che arriva primo al cuore dei semplici, a ruota di Bartoli e Leblanc, sfilato, ad una ventina di secondi. Oggi che saremo ancora qui, per dovere di firma, e che non sappiamo che fine abbiano fatto Zulle e Bartoli e Leblanc, ma sappiamo sin troppo bene che fine ha fatto Marco Pantani, sentiamo davvero giusto dedicargli i fiori di un trionfo. Primo, lui. Prima della pianura, prima dell'angoscia della esistenza uguale, per noi come per lui... Prima della routine di un lungo rapporto da passista, prima delle settimane e dei Giri da non tenere nè a cuore nè a mente, c'è stato lui. Parafrasi del tempo e dell'amore. Marco Pantani, 1998. Sin da Lago Laceno.
Gian Paolo Porreca da 'Il Mattino', ed. Avellino, 11 maggio 2012
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