Sveglia all’orario deciso da qualcun altro. Colazione a base di qualcosa decisa da qualcun altro. Allenamento con tempi e chilometraggi decisi da qualcun altro. Pranzo con menu deciso da qualcun altro. Massaggi e terapie stabiliti da qualcun altro. Tempo libero - il poco che resta - seguendo le mode stabilite da qualcun altro, playstation, social, musica techno. Infine sonno della durata stabilita da qualcun altro.
L’ho schematizzata un po’ da incubo, ma non è molto difforme dal reale: benvenuti nella vita quotidiana dell’atleta moderno. Adesso che la scienza e l’organizzazione hanno preso in mano tutto, un potente golpe sfociato nella dittatura, il ragazzo sa in ogni momento cosa deve fare e chi ascoltare. Ha il procuratore che cura i suoi interessi economici, ha il nutrizionista con la bilancina che stabilisce quanto e come mangiare, ha il preparatore che detta i tempi e le intensità degli allenamenti. Ci sono il mental coach e il motivatore che gli fanno la manutenzione psicologica. Ho il sospetto che ci sia anche uno specialista sessuologo che gli dica quanto fare e quando fare con la fidanzata, ma questo è solo un’ipotesi personale.
Infine c’è la corsa. Nelle orecchie l’auricolare per ascoltare come e quando muoversi. Davanti agli occhi, senza distrazioni, il computer per sapere come, quanto, dove spendere le energie. È davvero tutto previsto. Non c’è neanche un minuto che sfugga al controllo del Grande fratello, un Grande fratello iperstrutturato che vuole il suo bene, soprattutto le sue vittorie. Una vita sotto dettatura.
Di fatto, il ciclista moderno consegna le chiavi di casa del suo se stesso a qualcosa o qualcun altro. E a lungo andare diventa sempre più dura farsele restituire. Perché dopo tutto è anche tremendamente comodo vivere (e fare sport) così: quando cresci perennemente nel passeggino, con qualcuno che lo spinge alle spalle e decide dove andare, chi te lo fa fare di scendere, rischiando di cadere e sbucciarti le ginocchia (la metafora non è mia: è di Kant, “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?”, 1784).
Naturalmente non sono per niente in discussione il valore e la qualità dell’apparato di esperti che tiene in piedi questo nuovo mondo. Diamo per scontato, senza il minimo dubbio, che i ragazzi siano nelle mani migliori, tant’è vero che gli stessi genitori non vedono l’ora di consegnarli e affidarli. Ma. C’è un ma che magari avverto solo io, eppure sussiste fastidioso come un tarlo: ma in questo nuovo mondo e in questo nuovo modo, resta uno spicchio di possibilità che il ragazzo possa fare qualcosa in proprio, provare in proprio, sperimentare in proprio, sbagliare in proprio? È ancora contemplata l’opzione che ha affascinato e impegnato allo spasimo milioni di uomini in tutti i tempi, cioè usare la propria testa? Quando questi ragazzi del giorno d’oggi usano la propria testa? È previsto? È permesso? L’impressione - neanche tanto impressione - è che la libertà individuale di arrivare a un proprio equilibrio, a una propria armonia, a una propria sapienza, ovviamente giocandosi le fiches dell’esperienza e dell’errore, non sia più contemplata.
Tutto azzerato, tutto incasellato dentro allo schema e al protocollo, 24 ore su 24. Con tanti saluti a quell’arte dell’educazione che mi affascina da sempre, definita maieutica, Socrate il suo profeta maggiore: quest’arte che non considera il ragazzo un contenitore in cui buttare una caterva di nozioni e di istruzioni, ma anzi lo mette al centro e gli crea le condizioni perché arrivi da solo, prelevandole dal suo dentro, alle conclusioni migliori. Tutti sappiamo bene come una conquista raggiunta in prima persona, da protagonista, sia ben diversa e ben più salda di una conquista acquisita a pappagallo, travasata dall’alto, meccanicamente e passivamente. Chiedo: qualcuno vede ancora in giro, nel ciclismo d’oggi, uno spazio per la crescita e per la partecipazione attiva del soggetto, per una salutare autonomia personale che allevi un protagonista consapevole, e non un soldatino, un ingranaggio, esecutore?
Dice preoccupato il presidente dell’Uci Lappartient: vedo in gruppo ragazzi cupi e depressi. Ma va? Lo dico sommessamente, presidente: va bene lo stress esasperato, va bene il logorio della vita moderna, sempre più opprimenti nel ciclismo d’oggi, ma non sarà che ai nostri giovani non forniamo più qualche strumento minimo (la sparo grossa: persino un libro) per maneggiarla meglio, questa brutta bestia dello stress? Magari è una cosa troppo eccentrica in questa bolla di totale programmazione scientifica. Comunque io non mi arrendo. La butto lì. Volendo, se è concesso almeno un solo un libro, ai ragazzi consiglio il mai superato “1984” di Orwell. Anche soltanto per sapere come va a finire, un mondo fatto così.
da tuttoBICI di Dicembre