
Al Tour of Rwanda del 2009 c’era un corridore in più. Partiva prima degli altri, arrivava, se arrivava, quando voleva, era fuori gara, fuori classifica, fuori categoria, fuori corsa. Ma se la corsa esisteva, era grazie a lui. Al suo sogno, al suo progetto, ai suoi soldi e alle sue biciclette. E innanzitutto, alla sua depressione. Ne ho scritto anche su “Strade nere”, 100 storie di ciclismo africano e in Africa, appena pubblicato da Ediciclo.
Tom Ritchey, con Gary Fisher, è l’inventore della mountain bike. Nato nel 1956, dal New Jersey alla California, la passione per le bici ereditate dal padre, che gli insegnò a costruire ruote e riparare camere d’aria. Aveva 11 anni. Poi la prima squadra, la prima maglia, la prima corsa. Aveva 14 anni. Poi il primo telaio aggiustato: quello di una Cinelli. E il primo telaio assemblato. Aveva 16 anni. E su quello gareggiava. Poi si mise in proprio nel 1974, quando andava ancora a scuola, costruì 200 telai. Aveva 18 anni. Intanto corse, vittorie, titoli, finché attaccò la bici al chiodo, nel senso che smise di gareggiare, ma continuò a creare e produrre bici. Nel 1979 costruì un migliaio di telai. Aveva 23 anni.
La mountain bike nacque alla fine degli anni Settanta. Fu una rivoluzione. Non solo meccanica, ma anche storica, commerciale, sentimentale. Non cambiò solo il ciclismo, ma la vita. A cominciare dalla sua. Nei primi anni Duemila il suo matrimonio andò a pezzi. Fra i pezzi, i più importanti erano i tre figli. Rimise tutto in discussione, Ritchey, a cominciare da sé stesso. “Per più di 30 anni – mi raccontò – non avevo fatto altro che lavorare, progettare, disegnare, inventare. Ma stavo mancando le vere, importanti lezioni della vita. Ero a un punto morto. Finché un mio amico mi propose di andare nel Ruanda, l’ultimo posto della Terra in cui avrei mai immaginato di trascorrere il mio tempo. Ci andai, e pedalai, respirai, contemplai, studiai. E quei luoghi e quella gente mi restituirono la vita”. Luoghi vergini, di una bellezza prepotente, gente amichevole, di una ospitalità non prevista, e biciclette di legno senza pedali e senza freni per trasportare sacchi di caffè.
Ritchey ebbe una scintilla, un’illuminazione, e fece quello che sapeva fare: biciclette. Ma biciclette nuove, diverse, speciali. “Biciclette, perché più pratiche dei carri. Quelle ruandesi erano di legno, perché là il legno non manca. Senza pedali, perché in salita il carico era troppo pesante per poter spingere. E senza freni, perché in discesa quello stesso carico, lanciato, non si poteva controllare. Quelle bici, pensavo, in cento anni non sono cambiate di niente. E allora, mi sono detto, quale regalo gli posso fare subito? Non uno, ma due: una squadra corse, per sognare, e migliaia di bici nuove, in acciaio, per trasportare i sacchi di caffè e ridurre le ore del trasporto dalle piantagioni alle stazioni di lavorazione da dodici ore a due”.
Le “coffee bike” sono mountain bike-cargo, una via di mezzo tra limousine e furgone, la prima metà normale, la seconda con un asse di legno su cui appoggiare i sacchi. E sono meravigliose.
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