L'ORA DEL PASTO. GANDINI, NESSUN IRIDATO E' MAI STATO IN CARICA MENO DI LUI

STORIA | 08/02/2019 | 07:57
di Marco Pastonesi

Nessuna maglia di campione del mondo è durata così poco come la sua. Un paio d’ore. “Ero in albergo, mi ero appena addormentato, felice e contento, quando bussarono alla porta, l’aprii, entrarono organizzatori e dirigenti, mi dissero che per un errore nel cronometraggio non ero più il primo, ma il secondo. Se non mi venne un infarto, fu solo perché avevo un cuore da atleta. Dovetti prendere la maglia iridata, l’avevo stesa su una sedia, e infilarla al nuovo campione, un altro azzurro, il mio compagno di squadra Carlo Simonigh. Poi tornai a letto. Non dormii più. E piansi fino all’alba”.


Franco Gandini si definisce “una meteora”: tre anni favolosi, fiabeschi, fantastici, dall’oro olimpico di Melbourne 1956, dilettante, al bronzo mondiale di Parigi 1958, professionista. Inseguimento a squadre e individuale. Pista. Cronometro. Sparo. E poi sparato dal primo all’ultimo metro. Resistenza alla velocità. Fino all’acido lattico, fino all’ultimo respiro, fino all’apnea, fino al dolore.


Parmense di San Lazzaro, papà operaio (e maestro del lavoro) nel pastificio della Barilla, mamma casalinga, tre fratelli equidistanti, il primo, Aldo, otto anni dopo lui, il secondo, Franco, otto anni dopo il terzo, Adriano. Scuola fino alla quinta elementare: “Si andava e si tornava sotto i bombardamenti. Alla fine venni promosso perché temevano che, se fossi stato bocciato, me la sarei presa con la maestra”. Lavoretti e poi lavoro: “In una carrozzeria. Mi specializzai. E non avrei fatto altro”. Il primo a correre fu Aldo: “Campione italiano di inseguimento dilettanti nel 1949. Potenza, stile, classe, eleganza. Doti naturali e tecniche. Un fuoriclasse. Per rispetto, per amore, gli lucidavo la bicicletta”. Finché conquistò la sua prima bicicletta: “Era quella di Aldo. Abbassai la sella, ma non arrivavo ai pedali, così mi sedevo sulla canna”. La sua prima maglia: “Grigia con una riga bianca, rossa e blu, che quasi sembrava la bandiera francese, e invece era quella della stessa società di Aldo, il Velo Club Reggio Emilia”. Le prime corse: “Nel Parco Ducale di Parma. E quelle della Uisp”.

Strada: “Andavo bene sul piano e a cronometro”. Poi pista: “’Perché non provi?’, mi incoraggiò Aldo. La prima volta a Fiorenzuola d’Arda. Tenevo botta ai più forti e meno giovani”. Le prime vittorie: “Quelle nelle gare provinciali mi promossero alle gare regionali, quelle nelle gare regionali mi portarono al campionato italiano di inseguimento a squadre con l’Emilia Romagna. Gli allenamenti a Bologna, su una pista di cemento, dura, prendevo mezza giornata di permesso, poi recuperavo con gli straordinari. La gara a Genova, nello Stadio della nafta, su un’altra pista di cemento, con altre giornate di permesso”. La prima selezione: “Fui notato da Guido Costa, il commissario tecnico azzurro. Quando tiravo io, gli altri faticavano a tenere la mia ruota”. La prima convocazione: “A Milano. Al Vigorelli. Rispetto alle altre piste, quella era magica: si volava. Ed ero l’unico a tenere la ruota di Leandro Faggin, un fenomeno”. La seconda convocazione: “A Roma”. Poi l’avventura: “Tre giorni su un aereo turboelica per arrivare in Australia. Si volava basso e piano. Pregavamo perché l’aereo rimanesse su. Poi un mese e mezzo di allenamenti: la mattina 100-120 chilometri su strada, il pomeriggio la pista, la sera eravamo finiti. E finalmente il torneo. E l’oro. E anche l’oro di Ercole Baldini, noi pistard stavamo ai box per i rifornimenti. Mi sembrava un sogno”. Si risvegliò al ritorno in Italia: “Ci avevano promesso un premio, ma era stato quasi dimezzato”.

Campione italiano dilettanti a Firenze e secondo ai Mondiali di Rocourt nel 1957, dal 1958 al 1960 professionista nell’Atala su strada e nella Lygie su pista: “Mi ripromisi: se va, va, e se non va, smetto. Esordii alla Milano-Sanremo, rimasi in fuga fino a una ventina di chilometri dal traguardo, forai, rientrai, cedetti e arrivai fra il primo e il secondo gruppo. Poi mi fregò il servizio militare, durava 18 mesi, il capitano sosteneva che fosse meglio un campione in meno e un aviere in più, e non mi dava permessi per allenarmi. Quando lo facevo di nascosto, cambiandomi in una trattoria e girando nel velodromo Monti, rischiavo di essere pescato e finire nel carcere militare di Peschiera. Terminata la leva, lasciai il ciclismo e tornai in carrozzeria”.

Franco Gandini, 82 anni e una memoria inossidabile, sarà domenica 10 febbraio alla festa del Gruppo sportivo Cartura Nalini di Padova, dove abita. “Il bello del ciclismo sono, mentre si pedala, i pensieri che nascono e le fantasie che si moltiplicano, la natura che ci circonda e la strada che ci guida, la passione che ci accende e i sentimenti che ci accompagnano”.



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