IL PASTO AL GIRO. AMINE IL MAROCCHINO

DILETTANTI | 15/06/2017 | 07:22
Per gli italiani è “il marocchino”. Per i marocchini è “l’italiano”. Dorsale 156: Amine Ahmed Galdoune, 21 anni, velocista della bresciana Delio Gallina Colosio Eurofeed.

Che vita: “Sono nato marocchino,
a Marrakech, ma a sei mesi ero già italiano, a Seriate, alle porte di Bergamo. La passione per il ciclismo mi è stata trasmessa da mio padre Mohammed, un’eredità di famiglia, perché a correre erano lui, due zii e una zia. La mia prima bici era un mattone di ferro: piccolina e pesantissima, blu, senza marca, ma marchiata con una saetta rossa. La prima corsa non me la ricordo, ma la seconda sì, perché sono arrivato quarto ed è stato emozionante. E da quel momento non ho più smesso”.

Che ciclismo: “Mi sento italiano, ma sono marocchino. Così corro per una squadra italiana, ma anche per la nazionale marocchina. E per poterlo fare, ho mantenuto la nazionalità marocchina, partecipo ai campionati nazionali marocchini e sono diventato campione marocchino su pista e a crono. Tant’è che nel 2012, con la maglia del Marocco, ho preso il via anche ai Mondiali in Italia, a Firenze, e mi ha fatto una strana impressione. A dire la verità, nella nazionale italiana farei fatica a trovare posto, in quella marocchina no”.

Che corse: “Velocista, all’inizio in Marocco guadagnavo qualche vittoria, in Italia collezionavo soltanto piazzamenti. Poi mi sono sbloccato. Quest’anno un primo posto in una tappa della Marche Verte in Marocco e in una del Giro dei Carpazi in Polonia. Qui al Giro d’Italia Under 23 cerco di difendermi in salita per giocarmela in volata. Difficile, ma non impossibile. A volte si creano situazioni rischiose, pericolose, si diventa nervosi, stressati, e volano parole forti, sbagliate”.

Che parole: “Quante volte mi è toccato sentirmi dire ‘negro di merda’. A parte il fatto che ormai l’Italia è un Paese di bianchi e neri, di popoli ed etnie, di lingue e dialetti, a ferirmi non è tanto la parola ‘negro’ – nero lo sono, basta guardarmi in faccia – ma ‘merda’. Poi, però, chi lo diceva, veniva sempre a scusarsi. E siccome so che cosa succede in quei momenti in cui a sessanta all’ora basta un niente per volare al traguardo o volare per aria, ho sempre accettato le scuse. Anche perché neanche io sono un santo”.

Che fede: “Sono musulmano perché la mia famiglia è musulmana. Da nessuna parte – me lo ha insegnato mio padre - è scritto che per essere buoni musulmani bisogna trasformarsi in kamikaze e farsi scoppiare con dell’esplosivo. Rispetto, onestà, correttezza: questi sono i comandamenti. Nella vita e anche in corsa. L’unica trasgressione la faccio durante il Ramadan: non mangiare e non bere dall’alba al tramonto, da corridore, è impossibile”. Che Allah lo perdoni.

Marco Pastonesi
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