L'ORA DEL PASTO. L'UOMO IN SALITA, QUELLO CHE VA SU, SU, SU!

LIBRI | 30/12/2023 | 08:10
di Marco Pastonesi

Quelli che concepiscono il ciclismo, di più, la bicicletta, solo in senso verticale, dal basso verso l‘alto, dai piedi fino alla cima, come se le strade fossero soltanto salite, come se la vita fosse soltanto un gran premio della montagna, come se l’esistenza fosse soltanto una parete nord. Quelli che pensano solo a salire, arrampicarsi, ergersi e inerpicarsi, scalare, ascendere, sublimarsi. Quelli che sfidano la legge di gravità, ma anche la legge del buon senso, e a volte perfino la legge del comune senso del pudore benché atletico. Quelli che si considerano cicloalpinisti, ma anche cicloappenninici e ciclopirenaici, ciclopici nelle loro fatiche nonché nella loro visione monoculare, monolitica, monocolore, monomaniaca, monopolizzatrice e monosillabica. Su.


Niccolò Bulanti ha scritto “L’uomo in salita” (Ediciclo, 128 pagine, 14 euro, l’illustrazione in copertina è di Riccardo Guasco). A cominciare da se stesso: “ho deciso di andare in salita”, “e non soltanto perché qui (nella sua Valtellina, ndr) è quasi inevitabile”, “il mio andare in bicicletta è invece un tentativo se non di scomparire, quanto meno di sottrarmi”, “la salita, quindi, in antitesi alla velocità del quotidiano espressa dal curidur”, “la salita non competitivamente ma contemplativamente intesa”, finché “più vicini al cielo, in vetta al passo, noi veniamo al mondo”. Su.


Eroici o vittimisti, stoici o masochisti, gli uomini (e le donne) in salita sono fatti così. Lo premette Enrico Camanni nella prefazione: “Nelle gambe di chi sale ci sono crampi e orizzonti molto diversi, e soprattutto nella testa”, “la gioia e la sofferenza si misurano in dislivelli, non in chilometri, e i tornanti sono la cifra del suo sforzo”. Lo ribadisce Bulanti: “La bicicletta è un avvicinamento alla mistica: pedalando stiamo in una condizione che solitamente non ci appartiene. Galleggiamo tra cielo e terra e il contatto che manteniamo con quest’ultima è indiretto”. Su.

Quattordici salite, quattordici capitoli, quattordici storie. La Bonette-Col de Restefond, Tartano, Passo dello Stelvio e Passo Umbrail, Bagni Masino, Passo San Marco, Predarossa, Poira, Passo del Mortirolo, Pescegallo, Passo del Foscagno-Passo di Eira, Chiareggio, Berma, Passo dello Spluga, Passo Gavia. Parole chilometriche di storia e geografia, parole asfaltate e anche sterrate di cronaca e poesia, parole curve e dritte di sensazioni ed emozioni, parole rotonde (e quadrate, quando le gambe s’induriscono e la pedalata s’imprigiona) di faticosa e addirittura fradicia felicità. Su.

C’è una bellissima espressione che l’autore libera quando giunge al Rifugio Bonetta, sul Gavia, versante Santa Caterina Valfurva: “Raggiungo il sole e lo bevo”. E ancora: “Celebro, a qualsiasi livello siano, le mie ossa e i miei muscoli. Il mio cuore e il mio cervello. Ogni mia cellula. Il mio sangue comune”. Bravo, Bulanti. Su. Sì

 

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