QHUBEKA. IL DRAMMA DI NEGASI, IL CICLISTA CHE NON PUO' TORNARE A CASA

STORIA | 11/02/2021 | 13:52

Ogni mattina, quando si sveglia, il campione etiope della corsa su strada Negasi Haylu Abreha pensa alla sua famiglia e non ha idea i suoi cari siano ancora vici. Non ha modo di poter chiamare casa o inviare loro un messaggio per avere notizie.


Il ventenne corridore del Team Qhubeka (UCI Continental team) vive attualmente in un appartamento condiviso a Lucca, aspettando con ansia che la stagione ciclistica cominci. Ma nei suoi pensieri c’è solo la sua famiglia.


Negasi, che nel 2021 vivrà il suo secondo anno con il team Qhubeka Continental, è di Mek'ele, la città principale nella regione del Tigray, in Etiopia. È una regione al centro di conflitti tra le forze governative nazionali e il partito al governo della regione, una guerra che ha visto le Nazioni Unite dichiarare la loro preoccupazione per una potenziale crisi umanitaria nella regione.

Questo conflitto è scoppiato il 4 novembre 2020, esattamente nel giorno in cui Negasi andava da Bologna a Roma per volare poi verso casa alla fine della stagione agonistica. Era pronto a prendere un volo per Addis Abeba e poi un collegamento successivo con Mek'ele ma, mentre era in attesa di salire a bordo, ha ricevuto una telefonata dal Team Manager Kevin Campbell che lo informava delle notizie riguardanti il nord dell'Etiopia.

Dopo aver tentato di contattare l'ambasciata etiope, è stato chiaro come fosse impossibile raggiungere la regione del Tigray. Se Negasi fosse salito a bordo del suo volo, sarebbe stato bloccato ad Addis Abeba e la sua stessa sicurezza sarebbe stata a grande rischio. D’accordo con la squadra, quindi, si è deciso che la cosa migliore per lui sarebbe stata quella di restare in Italia e tornare a casa solo quando fosse sicuro farlo.
Una decisione che ha subito dovuto fare i conti con un problema in quanto i bagagli di Negasi erano già stati caricati sul volo diretto ad Addis Abeba, il ragazzo ha deciso di dormire in aeroporto in attesa del volo per tornare a Bologna e solo nel pomeriggio del giorno successivo ci è riuscito.

Tornato a Lucca, Negasi si è trovato solo, visto che tutti i suoi compagni di squadra erano già tornati per casa a stagione finita, ed è rimasto nella casa fino alla fine del mese, quando è scaduto il contratto d’affitto. A quel punto, è stato Damian Murphy, membro dello staff del Team Qhubeka, ad ospitarlo in attesa di un possbile ritorno in patria. Evento che, purtroppo, non ha ancora potuto verificarsi: Negasi pedala, aspetta l’esordio stagionale a marzo e ogni mattina si interroga sulla sorte dei suoi cari.

Con il cuore gonfio di emozione, Negasi Haylu Abreha racconta: «La situazione è molto difficile, perché tutta la copertura della rete in Tigray è stata disattivata. A volte riesco a chiamare mia madre di domenica, chiamate molto, molto brevi. Di solito la sua comunicazione è questa: “Ciao Negasi, stiamo bene, tutti stanno bene e ti amiamo. Ciao”. Non posso chiedere nulla riguardo alla situazione per la loro sicurezza. Ho molta paura per la mia famiglia e i miei amici. Vedo solo immagini sui social media o quelle che la gente mi manda: vedo morte, distruzione e povertà nei luoghi dove sono cresciuto. Di sicuro è difficile per me andare avanti: sono sotto stress per la mia famiglia ma al momento stesso sono molto grato e felice perché ho intorno a me persone del team che mi stanno aiutando molto. E penso ad allenarmi perché so che è l’unico modo in cui posso aiutare di più la mia famiglia. Sono molto felice di essere in questa squadra, sono come una famiglia per me: Kevin, Martina, Oksana, Damian, tutti mi aiutano molto. Se non fossi un ciclista sarei in Etiopia ora, tra i pericoli e una vita molto difficile. Nella mia regione, nella mia città natale molte persone muoiono ogni giorno, le stime parlano di  500 e anche 700 persone ogni giorno. Mancano cibo o acqua, hanno chiuso tutto, non ci sono negozi e attività commerciali aperti. I miei genitori non possono fare niente. Mio fratello è più grande di me, è un parrucchiere ma non può lavorare ora. Ho tre sorelle minori, dovrebbero andare a scuola, ma tutte le scuole sono chiuse. Con l'aiuto di un amico sono riuscito a mandare loro dei soldi l'anno scorso, ma ora non fanno tutti nulla, sopravvivono e basta».

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