DECEUNINCK. ALESSANDRO TEGNER E I SEGRETI DEL WOLFPACK

INTERVISTA | 15/01/2020 | 08:00
di Giulia De Maio

Sapete a chi dobbiamo il nome Wolfpack? Ad Alessandro Tegner, sulla carta responsabile marketing e comunicazione della Deceuninck Quick Step, ma in pratica braccio destro di Patrick Lefevere e figura chiave del team belga da gennaio 2003. Laureato in Scienze Politiche a Padova, fin da bambino Ale ha sempre avuto una passione smisurata per il ciclismo. Professionista apprezzato e benvoluto in gruppo, ha lavorato e lavora al fianco di campioni affermati e talenti emergenti. Finita un’intervista con una radio belga, saluta un collega inglese, dà in spagnolo indicazioni al responsabile dell’hotel in cui la squadra sta svolgendo il training camp per definire alcune questioni logistiche, intrattiene alcuni sponsor ed eccolo al nostro microfono per raccontarci com’è nato il branco di lupi più affamato e vincente degli ultimi anni.


Come sei arrivato fin qui?
«Per me ciclismo vuol dire famiglia, da quando avevo 5 anni andavo al Giro con papà, se chiudo gli occhi mi rivedo bambino con il cappellino in testa regalatomi dal nonno. Tutto ha avuto inizio grazie alla follia e all’ambizione della gioventù. Nel 2001 durante la leva militare, per non addormentarmi nel corso di una guardia di cui ero responsabile, stavo leggendo Bicisport e nell’ultima pagina tra i fatti di cronaca lessi che la Mapei stava cercando un addetto stampa. Senza pensarci troppo mi guardai intorno e iniziai a usare il vecchio computer della caserma, un “gabbione” di quelli di una volta, lentissimo. Scrissi una lettera aperta di tre facciate in cui raccontavo la mia passione e che mi sarebbe piaciuto lavorare in questo ambiente, con qualsiasi ruolo. Dopo due mesi, quando ero a casa in licenza, suona il cellulare, il mio primo cellulare, e quando dicono di chiamarmi da Mapei Sport penso sia lo scherzo di un amico a cui avevo raccontato la storia, invece quando mi passano Aldo Sassi e sento “pronto” con quella r moscia inconfondibile e il tono di voce deciso mi metto sull’attenti».


Alla Mapei ti sei formato.
«Mi hanno preso come stagista, dopo tre mesi mi hanno assunto. In quel periodo è come se fossi finito in una centrifuga, come se mi avessero portato con l’elicottero in mezzo al mare e mi avessero lasciato lì. O impari a nuotare o affoghi. È stato molto istruttivo, ho avuto maestri d’eccezione come lo stesso Aldo e Alvaro Crespi che sono diventati figure chiave nella mia vita perché hanno creduto in me quando avevo solo 25 anni. Terminata l’avventura della Mapei sono passato alla Quick Step con la quale ho vissuto tanti momenti indimenticabili».

I tre che metti sul podio?
«Per il mio lavoro più che una vittoria è importante il giorno in cui “piazzi” una notizia in un certo modo o sei in grado di aiutare un corridore in un momento difficile. I più emozionanti ed esaltanti per me sono stati i grandi ritorni dopo un momento duro. Al primo posto metto Paolo Bettini che vince il Giro di Lombardia dopo la morte del fratello. Ripensarci mi fa venire ancora la pelle d’oca perché siamo amici per la pelle e ho vissuto al suo fianco quel periodo. Prima della gara ero a casa sua a scrivere a mano i biglietti di ringraziamento ai messaggi di condoglianze che erano arrivati alla famiglia, ho visto che non riusciva ad allenarsi, usciva in bici e dopo mezz’ora tornava in lacrime, alla vigilia l’ho sentito dire ai genitori che sarebbe partito solo per rispetto dei tifosi, di aspettarlo in cima al Ghisallo perché lì si sarebbe fermato, invece scattò e andò a vincere. Piazza d’onore per Wouter Weylandt che vince a Middelburg al Giro 2010 dopo aver ricevuto tante critiche, anche internamente alla squadra, perché fino ad allora non era andato come si sperava. Quel giorno tra le dighe tutti cadevano e lui magicamente riusciva a evitare qualsiasi intoppo, era incredibile, sembrava in una bolla, fino a quello sprint vincente e all’abbraccio dopo l’arrivo che non dimenticherò mai. Terzo gradino per Tom Boonen che vince la Gand Wevelgem 2011 dopo problemi al ginocchio e mesi lontano dalle corse. So che nel suo palmares è una cosa piccola, ma per me è stato il segnale che era tornato».

Quanto è cambiato il ciclismo da quando ci lavori?
«Moltissimo. Una volta chiudevamo la saracinesca a metà ottobre per rialzarla a gennaio con calma, ora invece l’attività è un continuo senza sosta. La globalizzazione delle corse, i social media e il digital hanno cambiato il nostro sport così come stanno cambiando la vita delle persone ogni giorno. Dal punto di vista delle squadre dal lancio del Pro Tour e poi del World Tour a oggi i budget si sono moltiplicati, la qualità dello staff e la divisione delle responsabilità e dei compiti è andata via via affinandosi. Se una volta avevamo un solo allenatore ora ne abbiamo 4 e così si fa più attenzione anche ad aspetti come l’alimentazione che prima non venivano curati con la stessa professionalità. A mio avviso è migliorato, la barra è sempre più alta e le opportunità sono esplose. La cosa stupenda è che seppur sia cambiato moltissimo mantiene quel romanticismo di base che nessuno gli toglierà mai».

Trovare sponsor però sembra sempre più difficile.
«Non sono così pessimista. Numeri e statistiche dicono che il ciclismo è un veicolo straordinario di pubblicità e ritorno di immagine per gli sponsor. La domanda è: i responsabili marketing delle aziende di casa nostro lo sanno? Il fatto che UAE, Ineos, Deceuninck, Movistar e altri grandi marchi siano arrivati in questo mondo mi dà fiducia. Il nostro core business resta l’Europa, ma nell’ultimo decennio stiamo esplorando il mondo. Guardando a casa nostra abbiamo tanti corridori ma anche la maggior parte del personale che lavora all’estero. Dovremmo fare tutti un passettino indietro e metterci ad un tavolo per capire qual’è la via per ritornare ad avere una grande squadra tricolore. Ben vengano i seminari sul ritorno di immagine che offre il nostro movimento, l’unire le forze per trovare sponsor e organizzare gare giovanili. La cultura dello sport l’abbiamo, va rinfrescata. Sia i media che le aziende devono fare del proprio meglio per far conoscere le potenzialità a livello pubblicitario del ciclismo».

Un’idea di cui vai fiero?
«La macchina rosa che abbiamo tirato fuori dal cilindro quando Bettini vinse la tappa Diamante - Tropea al Giro 2005. Non si era mai fatto prima, è spuntata dal nulla, grazie ad un amico che dal Belgio l’ha portata a Milano e ha viaggiato tutta la notte per farla arrivare al villaggio di partenza la mattina dopo. Ora tutto il progetto Wolfpack mi coinvolge parecchio, è nato quasi per gioco (dalla frase motivazionale con cui aveva firmato una email il ds Brian Holm, ndr) e sta diventando molto importante. Funziona perché è reale. Prima di essere uno strumento di marketing è la filosofia della squadra, non a caso ha avuto origine da alcuni messaggi scambiati tra di noi. Questa squadra è speciale perché è unica nel suo modo di essere. In un anno vincono 14-15 corridori diversi, Evenepoel al suo primo mondiale tra i professionisti si è fermato ad aiutare Gilbert, in corsa dal primo all’ultimo atleta si muovono in modo fantastico».

Come si fa a restare così competitivi per tanti anni?
«Poter contare su partner di lungo termine garantisce continuità. E poi il team riflette l’animo del suo general manager Patrick Lefevere, un uomo che ha la bicicletta al posto del cuore, che pensa 24h su 24h alla squadra e vive per questo gruppo. Ancora oggi mi sorprende perché in 10” trova la soluzione a qualunque problema mentre magari io ci sto riflettendo su da ore. La squadra incarna lo spirito fiammingo per cui se c’è qualcosa da celebrare si può anche far festa fino a tarda sera, ma la mattina dopo si è i primi a rimettersi al lavoro».

Un sogno professionale ancora da realizzare?
«Personalmente sono contento di quello che faccio e della struttura che abbiamo quindi mi basterebbe continuare a crescere e fare esperienze per ampliare il mio bagaglio. A livello sportivo sarebbe fantastico se la squadra potesse vincere la maglia rosa o quella gialla. Quest’anno con Alaphilippe abbiamo respirato un po’ cosa vuol dire essere al comando del Tour de France, è qualcosa di pazzesco. Sono convinto continueremo anche ad essere protagonisti alle classiche. Quando un nostro corridore pedala sul pavé della Roubaix in gara significa che ci è già stato almeno 10 volte nei mesi precedenti per testare i materiali e studiare il percorso, nulla accade per caso, ma come ripeto sempre vale la pena lavorare un anno intero per arrivare alla settimana santa. Vivendola all’interno di una squadra belga è religione pura».

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