| 14/11/2004 | 00:00 Lo chiamavano «le blaireau», il tasso, per via di quel suo modo particolare di nascondersi nella pancia del gruppo e poi uscire all'improvviso quando meno te lo aspetti per attaccare. Bernard Hinault è sempre stato così, poco incline ai riflettori, alle frasi ad effetto, ma è sempre stato scaltro e veloce, proprio come un tasso.
«Ho buona memoria, ma ricordo malvolentieri la data del mio compleanno», dice. Asciutto, sintetico, a suo modo garbato, Bernard Hinault - l'ultimo dei grandi - 50 anni oggi, a chi gli ricorda il traguardo del mezzo secolo risponde con un semplice sorriso, ma senza entusiasmarsi troppo.
Bernard Hinault se non è stato il migliore di tutti, è stato uguale a pochi altri. Meglio di lui - a livello aritmetico - solo Eddy Merckx: il Cannibale. Meglio di lui, per fascino e storia, solo Fausto Coppi o Jacques Anquetil, ma nel ciclismo moderno Hinault ricopre un ruolo di tutto rispetto, diciamo pure un posto speciale: lassù, tra i più grandi sportivi di ogni tempo.
Testone, caparbio come pochi. Un vero bretone, lui che è nato il 14 novembre del 54, in quella penisola della Francia che si protende tra la Manica e l'Oceano Atlantico.
«Non devo essere stato un buon compagno di squadra, oggi sono molto più comprensivo, più saggio forse, ma quando correvo volevo vincere, non ci stavo ad arrivare secondo: volevo dominare il branco. Punto e basta».
E per questa bramosia di vittoria, in certi momenti ottusa e cieca, ha perso anche qualche grande corsa, come il suo sesto Tour de France, che l'avrebbe posto prima di Armstrong in cima alla lista dei plurivittoriosi di tutti i tempi.
Piccolo flash-back. Siamo nell'85. Hinault chiede al giovanissimo Greg Lemond di aiutarlo nell'assalto alla seconda accoppiata Giro-Tour della carriera con la promessa che nella stagione successiva - l'ultima per il francese - gli avrebbe lasciato via libera verso la maglia gialla. Ma grazie alla crono di Nantes e alla fuga sui Pirenei con Delgado, Hinault ipotecò anche il Tour dell'86. L'americano si innervosì però moltissimo per una dichiarazione pronunciata da Bernard Tapie, l'allora patron del team: «La sesta vittoria al Tour di Hinault mi interesserebbe più della prima di Lemond perché, negli Stati Uniti, Bernard è più conosciuto di Greg...». L'americano fece saltare in banco. Per dimostrargli in contrario.
«Questo è il mio grande rammarico - ricorda Hinault oggi impegnato nello staff della Grande Boucle -. Vincere sei Tour era alla mia portata, ma mi feci prendere la mano. La voglia di strafare, di vincere stravincere, peccato. Ma Greg... lasciamo perdere. E' meglio...».
Comincia a correre nel 1972. Battesimo agonistico, prima corsa e subito a bersaglio: a Plouguenoual. I suoi successi sono esponenziali. Vince, stravince, convince Cyrille Guimard, scopritore di talenti, a reclutarlo ad appena 20 anni nella Renault. Un ingaggio normale e un piano preciso in testa: debutto tra i professionisti nel 1975, primo Tour tre anni dopo, nel 1978.
Il giovane Bernardo vince da tutte le parti, inizialmente anche in pista: due titoli nazionali dell'inseguimento. Nel 1977 arriva il primo successo di peso, la Gand-Wevelgem davanti a Walter Planckaert e Francesco Moser, poi la Liegi-Bastogne-Liegi, il Delfinato Libero e il Gran Premio delle Nazioni.
Il 1978 è la stagione della consacrazione. Punta al Tour, dopo aver già messo in bacheca la Vuelta e lo vince. Anche in Italia lascia il segno del suo passaggio. Al debutto del Giro, nel 1980, fa subito centro. E' l'anno della galoppata sullo Stelvio a braccetto con Bernadeau al quale lascia il traguardo di Sondrio. Nel '79, in Italia si era già fatto conoscere e apprezzare al Giro di Lombardia, che conquisterà anche nell'84...
«Compio cinquant'anni, e mi guardo un po' alle spalle - spiega -. Se devo scegliere il successo per eccellenza scelgo il Mondiale Sallanches, nell'80 (secondo Gibì Baronchelli, ndr), è stato forse quello il punto più alto della mia carriera. Il cruccio? Non aver vinto il sesto Tour e non aver vinto altre maglie iridate: se mi fossi allenato un po' meglio... Cosa faccio oggi? Vivo a Calorguen, in Bretagna. Possiedo una fattoria di 50 ettari, dove allevo mucche. Anche in questo voglio diventare il più bravo».
Il più bravo. Bravo in bicicletta, bravo a lavorare la terra, bravo a farsi ascoltare dai vertici del Tour de France. Ma perché non è bravo a trovare un suo erede: dopo di lei la Francia non ha più avuto nessuno del suo spessore...
«E' difficile - spiega -. Oggi circolano troppi soldi e i ragazzi hanno meno voglia di lavorare, di fare sacrifici, di lottare per il gusto di lottare, non di guadagnare. Per me i soldi erano la logica conseguenza. Se c'è un corridore in giro che può ripercorrere il mio cammino? In Francia no, in Italia forse. Mi sembra che Damiano Cunego possa essere un elemento interessante: ha fame di vittoria, vince su tutti i terreni e per tutta la stagione. Deve però confermarsi, andare avanti, vincere ogni anno, con regolarità e spietatezza. Cosa penso di Lance Armstrong? E' un grande atleta: bravo, bravissimo, ma non esattamente un atleta come me. Mi fanno però ridere coloro che lo considerano semplicemente un prodotto della medicina: la cosa che lo fa vincere oggi è la gioia di poter essere di nuovo un corridore. Se ho amici? Tanti, alcuni sono anche miei ex colleghi, come Francesco Moser e Eddy Merckx, persone davvero squisite. Oggi, perché in corsa io non ho mai avuto amici».
Stamattina avete potuto leggere un accenno dell'intervista telefonica del nostro Luca Galimberti a Giorgia Bronzini. Qui potete sentirla completa dopo il minuto 11: uno sviluppo variamente argomentato del concetto di base, ossia l'errore nell'aver voluto equiparare troppo e troppo rapidamente...
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