LIBRI | 24/04/2017 | 07:06 Da oggi in libreria c'è anche "il Centogiro", 99 storie più una per celebrare le cento edizioni che quest'anno compirà il Giro d'Italia. Il libro, pubblicato da Ediciclo (256 pagine, 14,50 euro), spetta al gruppo di scrittura Bidon (Francesco Bozzi, Filippo Cauz, Eugenio D'Alessio, Leonardo Piccione, Riccardo Spinelli e Angelo Trofa). Marco Pastonesi ha contribuito con cinque storie, fra cui questa, dedicata ad Ambrogio Morelli e al Giro d'Italia del 1929.
Di quel Giro d’Italia spiegava che era il primo della sua vita, e gli sembrava di pedalare nella storia più che nella geografia. Di quel Giro d’Italia ricordava le tappe, quattordici, i chilometri, tremila, le strade, balorde, i fondi, dissestati, la fame, atavica, la sete, tenace, e la miseria, dovunque. Di quel Giro d’Italia riesumava la partenza da Roma, rispolverava l’arrivo a Milano, raccontava delle tappe al sud, di Tano Belloni che investì un ragazzo e il ragazzo morì e allora Tano si ritirò, e di Alfredo Binda che vinceva quando voleva perché in salita aveva una marcia in più. Di quel Giro d’Italia ripeteva del suo decimo posto finale, ma del primo fra gli isolati, gente autonoma e autarchica, forse anarchica, spesso disperata e sempre avventurosa. Il ciclismo di Ambrogio Morelli da Nerviano, provincia di Milano, era avventura pura. Le prime gare - le chiamavano “trimagg” - erano feste di paese, rione, quartiere, feste religiose, patronali e comunali, feste in cui a un certo punto spuntavano le bici e si correva come se fosse l’Olimpiade. La prima vittoria, quando andò in fuga, il suo compagno fermato dalla rottura di un pedale, il gruppo bloccato da una processione religiosa, lui da solo con tre minuti su tutti, in premio soldi e grappa. E poi quella volta che un gruppetto fece il San Gottardo in galleria, ma su un treno merci, e la giuria chiuse gli occhi. E poi quella volta che, in un altro gruppetto, ma stavolta davanti, prese una tale cotta che a sette chilometri dal traguardo, con la vista oscurata, fu costretto a sedersi al tavolino di un bar e mangiare tutto quello che c’era, compresa una cioccolata ancora incartata. E poi quella volta che, al Tour de France, inserito nella squadra nazionale italiana, si rifiutò di fare il gregario, ma con coerenza, perché è vero che non voleva aiutare ma non voleva neanche essere aiutato. E poi quelle volte che, al traguardo, gli consegnavano un foglietto di carta con l’indicazione della pensione dove andare a dormire, e c’era ancora da pedalare. E poi quella volta che Raffaele Di Paco aveva combinato con due ragazze, lui si rifiutò perché il sesso non ha mai fatto rima con ciclismo, Di Paco non si demoralizzò, invece che lasciare raddoppiò, e passò la notte con tutte e due, ma il giorno dopo, una quarantina di chilometri dalla partenza, salì su una macchina e si ritirò.
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