Cesare Benedetti: «Ho ancora voglia di far fatica»

di Nicolò Vallone

Le bandiere, nel ciclismo, esistono ancora. Uomini che passano l’intera carriera in una so­la squa­dra: cambiano magari i nomi della struttura a se­conda degli sponsor, ma loro sono sempre lì. In questo piccolo insieme di corridori, c’è inoltre una rarità assoluta: chi nasce professionalmente in un team che... nasce a sua volta in quello stesso anno, vede la luce praticamente insieme a lui. È il caso di un uomo na­to il 3 agosto 1987 a Rovereto (pa­tria an­che dei fratelli Bais) ma cresciuto a Ronzo-Chienis: Cesare Bene­det­ti, il quale nel 2010, dopo un quadriennio da dilettante, fece il grande salto all’interno della neonata NetApp, che nel 2017 sarebbe approdata nel World Tour come Bora Hansgrohe.
All’inizio del mese scorso il corridore italiano (nel frattempo divenuto polacco) ha prolungato il contratto per un al­­tro anno, il quindicesimo, con la co­pagine del bavarese Ralph Denk, che quindi finora ha mutato denominazione, categorie e organico, ma fin dall’inizio della propria esistenza ha Benedetti nel roster.
Cesare, ci racconti questo ennesimo rinnovo?
«Denk me ne parlò già alla vigilia dell’ultima tappa del Giro d’Italia a Ro­ma. Si può dire che della formazione originaria siamo rimasti solo lui e io, è chiaro a entrambi che finirò qui la mia carriera: l’anno prossimo ne avrò 37 e non avverto la necessità di cambiare aria».
Non è che il tuo obiettivo sono i 19 anni di Imanol Erviti in Movistar?
«Quello non lo so, di sicuro dopo il prossimo anno vorrei farne almeno un altro. Finché riesco a dare qualcosa e il team è contento voglio proseguire, an­che perché il ciclismo dalla pandemia sta cambiando rapidamente e offre stimoli continui. Quando mi accorgerò di non riuscire più a lavorare in un certo modo e di non essere in grado di far be­ne il mio mestiere, allora sarà il mo­mento di ap­pendere la bici al chiodo. Comunque nel post-carriera mi piacerebbe restare nell’ambiente».
Prima di pensare a quella che sarà la fine della vita da professionista, ritorniamo a quando essa cominciò: cosa accadde in quell’autunno-inverno 2009?
«Proveniente dalla Bergamasca De Nar­­di (l’attuale Colpack Ballan Csb) feci uno stage in Liquigas, dove però a fine settembre mi dissero che non mi avrebbero confermato. Fu dura trovare una sistemazione, devo ringraziare il mio direttore sportivo di allora Oscar Pellicioli perché mi mise in contatto con la NetApp: il tramite fu Enrico Poitschke, che aveva chiuso la carriera da corridore nella Milram di Gianluigi Stanga sotto la direzione di Pellicioli e sarebbe stato uno dei diesse della na­scente squadra tedesca, piccola ma con un progetto a lungo termine. Potevo scegliere se rimanere nei dilettanti an­co­ra una stagione o se prendere quel tre­no che mi avrebbe consentito di disputare diverse competizioni internazionali, seppur minori. Decisi di intraprendere l’avventura e abitai per un paio d’anni vicino al confine tra Belgio e Germania, dove la squadra aveva il magazzino: feci tantissima fatica, mi ero catapultato in un contesto molto diverso da quello a cui ero abituato. A partire dalla conformazione del territorio: dalle salite del Trentino mi trovai a dover riarrangiare la routine di allenamento. In secondo luogo, da una U23 italiana dove eravamo straseguiti mi trovai più solo. Per i primi tre anni non eb­bi neppure il preparatore fisico personale, ma quello fu un mio errore di gioventù: non ce l’avevo da dilettante e ri­tenevo che, a maggior ragione da pro dovessi dimostrare di sapermi gestire autonomamente. Tenni duro, maturai sot­to ogni aspetto, presi confidenza coi contesti attorno a me, e posso dire che ne è valsa la pena».
Come hai visto cambiare la squadra attorno a te in questo decennio e mezzo?
«Agli albori eravamo una Professional che ampliava progressivamente il ca­lendario. Nel 2012 arrivarono le prime wild card di alto livello, iniziammo con le classiche del Nord e il Giro d’Italia (nel 2012 la mia prima di otto partecipazioni alla corsa rosa) e di anno in anno aggiungemmo Vuelta e Tour. Nel 2015 entrò in scena Bora e in un paio di stagioni, con l’aggiunta di Han­sgrohe, sa­lim­mo nella massima categoria. A quel punto, se a prescindere avevamo una vocazione parecchio internazionale su richiesta degli sponsor, e se avvertivamo già l’esigenza di far bene e metterci in mostra nei palcoscenici più prestigiosi, cominciarono ad arrivare corridori non solo di diverse nazionalità ma proprio di caratura superiore, e con loro la responsabilità di dover centrare i risultati. Di conseguenza si aprì un capitolo totalmente nuovo, dove partecipavamo di diritto a tutte le gare maggiori e dovendo a volte fare noi la cor­sa. Personalmente trovai una dimensione più mia: avevo sempre tirato per i compagni, ma ora c’era da af­fron­tare le cose di petto e noi gregari di­ven­ta­vamo protagonisti in alcune fa­si. Per un periodo abbiamo fatto incetta di successi coi velocisti, poi ad un certo momento ab­biamo puntato di più sulle classifiche generali».
Una “transizione” testimoniata dai tuoi ca­pitani che si sono succeduti in Bora: Sam Bennett, Pascal Ackermann, Peter Sagan, Jai Hindley, Aleksandr Vlasov... in attesa di aggiungere all’elenco Primoz Roglic, chi di loro ti ha impressionato in modo particolare?
«In generale ci siamo tolti grosse soddisfazioni: al Giro 2018 Bennett vinse tre tappe, nel 2019 Ackermann ottenne la maglia ciclamino, Sagan ha vinto la decima tappa sia del Giro 2020 che del 2021, con Hindley nel 2022 abbiamo centrato il bersaglio grosso e quella è la gioia più bella, anche per come se la prese sugli ultimi chilometri del Fe­daia! Jai in quell’occasione fu uno splendido esempio di calma, sicuramente ribolliva dentro di sé ma non ho mai visto da vicino un atleta gestirla con tale fermezza. Però quello che mi ha colpito maggiormente è Peter, per la sommatoria di talento e personalità. Il 2017 secondo me è stata la sua annata migliore, quella del terzo Mondiale, dove peraltro non raccolse il massimo a causa della caduta al Fiandre con Van Avermaet e della squalifica al Tour de France per l’episodio con Cavendish: andava fortissimo, davvero. Addirittura vi dico che la Milano-Sanremo di quell’anno, in cui lui non arrivò primo bensì secondo tra Kwiatkowski e Ala­phi­lippe, è stata la mia esperienza da gregario più gratificante, uno dei ricordi più vividi della mia vita: avvertivo il “peso” della sua maglia iridata, sapevo di non poter sbagliare e riuscii a superare quelli che pensavo fossero i miei limiti psico-fisici, lui scattò sul Pog­gio e si giocò la vittoria al fotofinish con gli altri due. Una corsa che, in un certo senso, sento mia a livello emotivo e che riaffiora spesso in mente».
Una corsa che ti aveva dato in precedenza una marcia in più era sicuramente il Giro di Lombardia 2015.
«Momento cruciale della mia carriera. Eravamo un’ambiziosa Professional ma in quel 4 ottobre io praticamente ero senza contratto: il 20 agosto mi avevano detto che ero fuori dai piani della Bora Argon 18 (così si chiamava all’epoca) per la stagione successiva e non ero ancora riuscito a trovare un’altra squadra. A situazioni psicologicamente difficili però mi ero abituato cinque-sei anni prima, come vi ho raccontato, in occasione del passaggio da di­lettante a professionista con la Net­App: la padroneggiai molto bene e mi misi a correre ogni gara come se fosse l’ultima. La classica delle foglie morte non fece eccezione: entrai nella fuga di giornata con una decina di corridori e, dopo la scrematura del Ghi­sallo, rimasi da solo sul muro di Sormano. Scollinai a ruota di Kwia­tkowski e Wellens, che mi avevano appena ripreso, e tenni le ruote dei big in discesa fino ai piedi dell’ascesa di Civiglio: alla fine Nibali si prese il suo primo Lombardia e io chiusi con un quattordicesimo posto che all’epoca fu il miglior risultato storico del nostro team in una monumento. Quella prestazione convinse la dirigenza a ripensarci e farmi firmare il rinnovo: otto anni più tardi, eccoci qua».
Prima di quella ribalta lombarda avevi vinto due cronosquadre (nel 2012 alla Coppi&Bartali e in quello stesso 2015 al Giro del Trentino, tua gara di casa) e nel 2016 avresti conquistato la classifica scalatori della Tirreno Adriatico, ma anche per un preziosissimo uomo squadra come te sarebbe spuntato il giorno della piena gloria personale, quella che a oltre trent’anni di età e quasi dieci di professionismo ti avrebbe tolto lo zero alla voce wins per sostituirlo con l’uno: giovedì 23 maggio 2019.
«Dodicesima frazione di un Giro d’Italia dove lottavamo per la classifica a punti con Ackermann (vedi la risposta a due domande fa, ndr) e per la ge­nerale con Rafal Majka (si sarebbe classificato 6° a 6’56’’ dal vincitore Ca­rapaz, ndr): 158 chilometri da Cuneo a Pinerolo, settantesimo anniversario dell’impresa di Fausto Coppi, ma con un percorso molto meno impegnativo. In quel Giro io ero quello che tirava a inizio tappa, non avrei mai pensato che mi avrebbero dato un via libera: due giorni prima però Acker­mann era ca­duto in una tappa piatta in Emilia, l’indomani alla Carpi-Novi Ligure non era al meglio e mi ero potuto un po’ riposare in gruppo. Nel post gara venne in stanza Patxi Vila, che in quel Giro guidava la nostra prima am­miraglia, a dir­mi che nella Cuneo-Pinerolo del giorno dopo sarei potuto andare in avanscoperta. Visto sul Ga­ribaldi il GPM del Montoso mi sem­brava troppo duro, ma Vila mi convinse: se non fossi riuscito a restare da­vanti avrei aspettato Majka per aiutarlo. Invece ci riuscii: sulla salita mi defilai e feci elastico, in discesa rientrai sui superstiti della fuga che era­no Ca­pec­chi, Dunbar e i miei coetanei Bram­billa e Caruso. Simile dinamica si verificò successivamente sullo strappo di San Maurizio nei chilometri conclusivi, e una volta sul rettilineo finale non ebbi nemmeno il tempo di pensare alla tattica. I miei avversari erano forti, ma ripescai lo spunto veloce che manifestavo da ragazzo: partii alle loro spalle di rapportone, la mia bici aveva qualche dente in meno, rivedendo quello sprint sembra quasi che io pedali in slow-motion! Ormai avevo serenamente accettato lo status di faticatore per i capitani: a maggior ragione vedendo come la squadra stava salendo di livello nel World Tour, vincere forse non era più nemmeno una speranza, di sicuro non era un chiodo fisso. Ma a noi corridori può succedere di vincere quando hai un ruolo di secondo piano, rispetto a quando sei il leader e hai un carico mentale maggiore da gestire. Di quel giorno conservo il trofeo: un bel quadro che celebrava l’impresa di Coppi. E diversi ricordi, a partire dalla conferenza stampa: la nostra addetta stampa era impegnata ai bus perché lo staff comunicazione della Bora Hans­grohe stava realizzando un video sul rientro in pullman dei corridori dopo l’arrivo, e il parcheggio era lontano. In pratica, vinsi nell’unico giorno in cui lei non era presente al traguardo, e feci la conferenza da solo. Al rientro in al­bergo, l’abbraccio con uno dei miei più cari amici: l’autista del bus Lukasz Pi­wowski. E la battuta di Majka: "Quan­do alla fine battagliavo con gli altri del gruppetto principale mi chiedevo perché non mi avessi aspettato, meno ma­le che hai vinto va’" e tuttora mi rinfaccia scherzosamente che ha vinto tappe alla Vuelta e al Tour, mentre al Giro gli manca...».
Quando avevi capito che il tuo compito principale sarebbe stato quello di lavorare per i compagni?
«Da Under 23 qualche gara la vinsi e agli inizi in NetApp mi potei giocare qualche chance, cogliendo il primo podio nel 2011 nella quarta tappa del Tour of Britain, ma come caratteristiche sono sempre stato quel “tutto e niente” che va benino ovunque ma non ha picco in volata né in salita. Quin­di sì, la mia vocazione era ed è il lavoro per gli altri: già da Juniores mi ero accorto che andavo più forte quando dovevo correre per Daniel Oss (che avrei ritrovato negli anni di Sagan in Bora Hansgrohe) rispetto a quando avevo occasione di cercare la vittoria in prima persona. Poi ho provato a ritagliarmi un ruolo che trovo adrenalinico e ammirevole ossia quello di ultimo uomo per le volate, ma negli anni mi sono reso conto di non avere la stazza e la potenza giusta. E allora ecco il Cesare Benedetti che tutti conoscete!».
E che tutti conosce, data l’esperienza: chi è il tuo migliore amico tra i colleghi?
«Di ex compagni sento spesso Maciej Bodnar (altro uomo di Sagan) e Chri­stoph Pfingsten, tedesco che ha chiuso la carriera due anni fa in Jumbo Visma. Con quest’ultimo ho condiviso tante volte la camera, abbiamo figli circa del­la stessa età e siamo stati in ritiro insieme con le famiglie. Ma in generale ten­do a legare di più coi membri dello staff che coi compagni: uno che oggi lavora alla Ineos Grenadiers, con cui mi vedo tuttora, è il polacco Piwowski di cui parlavo poco fa. Sarà l’età, ma mi fermo volentieri dopo cena al tavolo dello staff a fare quattro chiacchiere sulla giornata trascorsa: magari è un modo per proiettarmi al futuro (sorride, ndr)».
Adesso invece ci riproiettiamo decisamente sul passato: ironia della sorte, il colpo di fulmine col ciclismo lo avesti in un giorno cupo e amaro a Madonna di Campiglio (un giorno da cui ti porti dietro pure una foto con Camenzind).
«Il 5 giugno 1999 non avevo ancora compiuto dodici anni. La figlia della mia ex baby sitter lavorava nella carovana del Giro per Estathé e mi aveva procurato il pass per il villaggio di partenza: l’atmosfera non era delle più limpide per ciò che era successo a Pan­tani, come ben sappiamo, ma a quell’età e non conoscendo bene il ci­clismo non me resi conto. M’innamorai nel ve­dere i corridori così da vicino e decisi che un giorno sarei stato dalla loro par­te della barricata. Un mese più tardi ini­­ziò la mia avventura in questo sport».
In che modo?
«Un martedì sera di luglio m’iscrissi alla Ciclistica Dro, al giovedì mi diedero la bicicletta (una di quelle con le levette del cambio sulla canna) ma l’allenamento saltò causa pioggia, al sabato mattina ebbi giusto il tempo di provarla e poi via alla prima corsa della mia vita: a Pomarolo, in Vallagarina. Avendo paura che io non fossi capace, non mi avevano nemmeno montato il portaborracce: lascio immaginare la se­te al traguardo! Il percorso era su e giù e lo feci tutto con lo stesso rapporto, poiché in effetti non sapevo ancora cambiare, ma riuscii a finire la gara. E indovinate un po’ chi mi doppiò all’inizio dell’ultimo giro... Daniel Oss, che andò a stravincere. Lui l’avrei avuto in seguito come compagno nelle rappresentative regionali di varie categorie, poi come già accennato da juniores e infine dal 2018 al 2021 in Bora Han­sgrohe».
Come si svolse la tua trafila giovanile?
«Quelle prime corse nel ’99 furono le uniche nei Giovanissimi, dopodiché feci pure Esordienti e Allievi nella Dro. Nel 2004 raggiunsi Oss nell’Aurora Trento, che era affiliata all’Aquila di Ponte a Ema, la società fiorentina che era stata la prima squadra di Bartali: eravamo una formazione mista e in quel biennio corremmo tanto in To­scana, conservo bellissimi ricordi. Nel 2006 passai Under 23 nella Gavardo, team gardesano della provincia di Brescia, dove corsi per tre stagioni pri­ma di quella famosa annata in Ber­ga­masca-De Nardi-Colpack da cui siamo partiti. Un cammino nel quale ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno dato preziosi insegnamenti, tecnici e umani: per questo sono rimasto in contatto con quasi tutti, molti erano pure al mio matrimonio. Menzionerei in particolare Diego Ferrari, uno dei miei direttori sportivi in Gavardo».
Tra i diesse attuali, invece, hai un Enrico Gasparotto con cui condividi peraltro la migrazione dalla nazionalità italiana a una straniera (ha corso la sua ultima stagione in carriera, la 2020, per la Sviz­zera).
«Non solo, sua moglie Anna Mo­ska si trasferì in Svizzera da piccola ma è polacca come la mia Dorota! Col Ga­spa mi son trovato subito bene: non pensavo, lo ammetto... in gruppo era uno che stava molto sulle sue. Quando però è entrato nello staff Bora Han­sgrohe per il 2022 (in cui avrebbe vinto al primo colpo il Giro, con Hindley, ndr) mi è piaciuta immediatamente una sua caratteristica: è un “direttore come una volta“ col quale non si parla solo di tattica ma anche di sensazioni. Non dobbiamo mai dimenticare che i ciclisti sono persone e spesso quando vai alle corse ti porti dietro i problemi personali: lui è bravo a gestire i suoi ragazzi da quel punto di vista, li capisce».
È ufficialmente giunto il momento di domandarti come e quando sei diventato polacco.
«Conobbi la mia futura moglie nel 2007, correva in bici anche lei (Dorota Gregorowicz, di due anni più giovane di Cesare, ndr) fino a ritirarsi nel 2012 chiudendo la carriera in nella Verin­legno Fabiani. Nel 2013 ci sposammo e tre anni più tardi nacque Janina. Pro­prio nel 2016, nel frattempo, correvo Tour e Vuelta col mio compagno di squadra e amico Bartosz Huzarski: spesso in camera faceva delle dirette sui social dove comparivo anch’io parlando polacco. Da quelle serate sorse l’interesse da parte della Polonia ciclistica nei miei confronti, a fine stagione in un’intervista mi chiesero esplicitamente se mi sarebbe piaciuto rappresentare il loro Paese. Fin lì non ci avevo mai pensato, a quel punto iniziai a pensare “perché no?”».
È stata una procedura lunga?
«Più che in Italia sicuramente. Da noi, se sposi un italiano o un’italiana, credo ti bastino 400 euro per prendere il passaporto; lì non è co­sì, ho dovuto aspet­tare qualche anno e sostenere esami di lingua. Mi hanno fatto ul­teriori controlli e nel 2021, poco prima che na­scesse la nostra secondogenita Ka­ro­lina, ho ac­quisito finalmente la cittadinanza e inoltrato all’UCI la richiesta di cambio nazionalità. Ad agosto la Vuelta a Burgos fu la mia ultima corsa da italiano, la settimana seguente mi schierai al via della Vuelta a España da polacco e a fine settembre, a Lovanio, con la ma­glia biancorossa della Na­zio­nale mi classificai 46° nell’unico Mon­diale del­la mia vita: sono stato fortunato che si sia svolto in Belgio, dal punto di vista del tifo è stato qualcosa di speciale. Nel 2022 e nel 2023 invece ho partecipato agli Europei di Monaco di Ba­viera e Dren­the».
E come ho potuto saggiare di persona al Giro di Polonia, sei stato accolto come uno di loro al 100%.
«Quest’anno in particolare è stato com­movente. Nella giornata inaugurale a Poznan c’era la fila per foto e autografi, in una città che non è vicinissima a casa nostra. Vicina lo è invece Ka­to­wice, capoluogo della regione dove sta Gliwice: per una bella coincidenza, proprio a Katowice si è svolta la crono nel giorno del mio 36esimo compleanno. Sono venute a trovarmi Dorota e le bimbe, e sul cavalcavia più significativo del percorso era appeso uno striscione col mio nome scritto su una bandiera polacca!».
Abiti in Trentino o in Polonia?
«La residenza ce l’ho a Mori, a quindici chilometri dal lago di Garda, ma ci di­vidiamo tra qui e la Slesia. L’inverno tendo a passarlo in Trentino perché è più facile allenarsi come si richiede a un professionista: su in Polonia le temperature si fanno troppo rigide, lì preferisco trascorrere i momenti liberi del­la bella stagione. Anche le mie figlie se­guono un’alternanza in tal senso: Janina è nata a Rovereto, Ka­rolina a Gli­wi­ce».
Karolina ha solo un anno e mezzo, ma Janina che ne ha sette fa sport?
«Sì, ma non va in bici: come me le pia­ce sciare, e ora ha intrapreso pure l’atletica leggera».
Curiosità: quante lingue parli?
«Quattro: italiano da madrelingua, polacco perfetto, inglese e tedesco un gradino sotto ma bene. Le bambine, nate già bilingui, partono senz’altro avvantaggiate».
Prima di cambiar casacca, quante volte avevi indossato l’azzurro dell’Italia?
«Due. Nel 2008 da Under 23 al Giro delle Regioni e nel 2015 al Trofeo Mat­teotti, in una selezione del c.t. Cassani dove c’erano anche professionisti o futuri tali come Leonardo Basso, Die­go Ulissi, Oliviero Troia e Andrea Vendrame».
È vero che ti senti più tirolese che italiano?
«Sì, ma non è certo un disprezzare l’Italia. È semplicemente un fatto d’identità: sono appassionato di storia e ho studiato quella delle mie valli e della mia famiglia, mio nonno era un profugo austriaco e io sono cresciuto tra i bunker della Prima Guerra Mon­diale».
E dalla tua Val di Gresta sei passato quest’anno col Giro d’Italia: era il 23 maggio, esattamente quattro anni dalla mitica vittoria di Pinerolo...
«...frazione numero 16, quella del monte Bondone. Unica giornata di questo Giro in cui sono andato in fuga, non potevo perdermi l’occasione di transitare in testa sulle mie strade! In precedenza la corsa rosa era passata di lì nel 2001: la tappa in cui Wladimir Belli tirò il famoso pugno a un tifoso che l’aveva provocato».
In apertura hai accennato ai cambiamenti del ciclismo di oggi rispetto anche solo al decennio scorso: ce li puoi riassumere?
«Riguardano soprattutto alimentazione, preparazione e precocità. Come normale che sia, lo sport ad altissimo livello cambia di pari passo con l’evoluzione della scienza: dalla fissa del mangiar poco, ad esempio, si è passati all’assumere quantità spropositate di carboidrati. E coi mezzi tecnologici e di comunicazione odierni, i giovani hanno a disposizione fin da subito gli strumenti per avvicinarsi all’allenamento di un professionista: basta fare una ricerca su Internet e già ci si può adeguare ai metodi moderni. Ho visto file su Strava di allievi che fanno cinque ore, figuriamoci cosa fanno nella categoria superiore: ci credo che ormai ti trovi ad affrontare giovani che vengono direttamente dagli Juniores! Io sono maturato a 28 anni, la nuova generazione sembra che non abbia quasi bisogno di adattarsi perché è già preparata: lo os­servo anche nella Auto Eder (vivaio della Bora Hansgrohe) vedo come so­no professionali quei ragazzi. Tuttavia, sebbene si noti di meno, un margine di crescita ce l’hanno pure loro, anche solo per abituarsi al chilometraggio del­le grandi corse».
Ti piace la direzione in cui si sta andando?
«Seguire consigli, tabelle e quant’altro mi piace il giusto, non sono un patito di scienza e watt: amo far bene le cose ma senza l’assillo dei numeri. Comun­que sono i tempi che cambiano ed è giusto adattarsi. Un aspetto che di sicuro non mi piace, semmai, è l’esasperazione che si respira in gara di dover far qualcosa a ogni costo: oggi i software ti mostrano il percorso metro per metro, tutti quindi sanno che in quel dato punto conviene stare davanti, tutti provano a farlo e ci si può far male. Sta venendo meno il rispetto per la salute degli altri e per la propria, e mi ci metto dentro anch’io perché se non fai così non sopravvivi ciclisticamente. Certi rischi che vedo, non me li ricordo quando passai professionista: in gruppo c’era più calma, oltre alla soggezione verso i grandi nomi. Ci pensavi due volte prima di mettere in difficoltà qualcuno. Qualche anno fa sono uscito in allenamento con Erik Zabel, e nonostante io fossi già un pro navigato sta­vo attento a stargli a ruota e non commettere niente di strano: ecco, questo timore reverenziale, che quelli della mia generazione avevano nei confronti di chi fino a poco prima vedevano solo in tv, non c’è più. Ed è appunto frutto del fatto che ora i giovani arrivano già maturi e con la possibilità di fare risultato. Infine, noto una minor cultura ciclistica: se a certi ragazzi tiro fuori dei nomi di anni Novanta e inizio Due­mila, pure gente che ha vinto, zero proprio. Sono molto più concentrati sul loro mondo».
Da veterano con un punto di vista sia italiano che estero, qual è il principale problema del ciclismo di casa nostra?
«Ne cito uno che non so se sia il principale, ma di cui ho sentito parlare da un ex compagno di squadra: Daniele Bazzana, che corse con me in Gavardo e da dieci anni è preparatore nei dilettanti per la Valle Seriana Cene, mi dice che praticamente non ci sono più gare regionali, e quelle che ci sono hanno dei limiti minimi di partenti per squadra che inducono alcune piccole so­cietà a correre magari una volta ogni due settimane. Non vorrei che l’aumento delle Continental italiane (oggi ben 13, ndr) pur avendo il pregio di permettere un confronto con squadre e corridori stranieri, sia stato un passo indietro anziché in avanti. I talenti ju­niores infatti non mancano, basta vedere come stanno spesso e volentieri da­vanti nelle competizioni internazionali».
A proposito di talenti e di Italia, concluderei con un pensiero sui tuoi due compagni di squadra italiani (in attesa di Mat­teo Sobrero): due scalatori, il 28enne friulano Matteo Fabbro e il 24enne emiliano Giovanni Aleotti.
«Con Fabbro ho fatto un Giro d’Italia in camera assieme, e quando condividi a così stretto contatto un evento da tre settimane instauri con quella persona un certo tipo di rapporto. Mi dispiace per la sfortuna che ha avuto nell’ultimo biennio: l’anno scorso ci ha messo tan­to a recuperare completamente dal Co­vid e ha dovuto saltare la corsa rosa, quantomeno si è potuto rifare disputando la Vuelta però quest’anno non è riuscito ad avere continuità. Spero che la salute gli dia tregua, che si sistemi bene per la prossima stagione e che possa far vedere cose importanti al Gi­ro. Per quanto riguarda Aleotti, è un altro che mi piace molto: nell’epoca dei giovani precoci di cui abbiamo appena parlato, prima di passare con noi nel World Tour ha seguito un percorso più progressivo col Team Friuli, una delle realtà italiane più valide, che l’ha portato a vincere il tricolore Under 23 nel 2020. Ho potuto apprezzare il suo motore in più d’un occasione, finora gli è mancato qualcosina a livello tattico nei momenti clou ma è un atleta metodico e convinto: il suo meglio deve ancora venire».
Benedetti ha terminato il 2023 al Tour of Guanxi. Un’esperienza esotica che ha voluto vivere lui espressamente: «L’ho chiesto già a dicembre scorso. Feci il Qinghai Lake nel 2014, ma il sud della Cina ancora mi mancava e volevo vedere posti nuovi».
Appassionato non solo di storia, ma di geografia e culture. Aspetti che si compenetrano nel ciclismo come in nessun altro sport. Powodzenia Cece!

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