Marta volante

di Giulia De Maio

Vincere una classica monumento regala un’emozione pazzesca, ma non ti cambia la vita. Per lo meno se sei donna. Puoi essere stata formidabile, ma mentre al­zavi le braccia al cielo i telecronisti non hanno urlato per te perché la tv non ha trasmesso le immagini in diretta della tua fantastica azione e con il premio che ti sei meritata puoi giusto offrire una birra a chi ti ha aiutato ad arrivare a un traguardo tanto prestigioso. Nulla più.
Marta Bastianelli ci ha fatto piangere di gioia così come Alberto Bettiol, ma a differenza del suo giovane collega conquistando la Ronde non ha “svoltato”. Passata la festa, la leonessa del Fiandre tira fuori gli artigli. La dura legge della savana va cambiata. Non tanto per lei, che tante ne ha passate e a 32 anni (li ha compiuti il 30 aprile, ndr) ha davanti a sé ancora poche stagioni da atleta, ma per tutte le altre ra­gazze che verranno e che, se avranno la sua stessa fame e talento, potrebbero regalarsi un giorno un successo così grande.
Marta nasce a Velletri il 30 aprile 1987. Suo zio correva in bicicletta, i suoi cu­gini correvano in bicicletta e i suoi ge­ni­tori non hanno saputo dirle di no, con riserva però: «Perché il ciclismo è uno sport da maschi». Nel 1997, quando Alessandra Cappellotto vinceva i mondiali a San Sebastian, Marta iniziava a pedalare. 10 anni dopo, a Stoccar­da, si laureava campionessa del mondo, seconda italiana della storia a riuscirci. A 31 anni vestendo contemporaneamente la maglia di campionessa europea, con le fasce arcobaleno dell’iride che le spuntano dalle maniche e il ciclamino di leader del World Tour, Marta ha conquistato la Ronde van Vlaan­de­ren in un avvio di stagione eccezionale che già l’aveva vista trionfare alla Om­loop van het Hageland e alla Ronde van Drenthe. Quattro anni dopo la vittoria di Elisa Longo Borghini nel 2015, l’Inno di Mameli è tornato a suonare grazie alla “mamma volante” che allo sprint ha nettamente battuto l’olandese Annemiek Van Vleuten e la giovane danese Cecilie Uttrup Ludwig.
Il Belgio le porta bene, visto che l’anno scorso aveva vinto la Gand-Wevelgem e la Freccia del Brabante. La classica più dura con i suoi 159 chilometri fatti di muri, polvere e pavé ci ha ricordato di avere tra le nostre fila una leonessa, che ha ancora tanta voglia di ruggire. Davanti a sé ha un nuovo arcobaleno da cui farsi incoronare e un sogno a forma di cinque cerchi.
Il Fiandre è speciale.
«Il pubblico è incredibile, ti dà una ca­ri­ca pazzesca. Ho sempre voluto vincere questa corsa, ci sono sempre andata molto lontano perché non ci ho mai creduto fino in fondo. La mia stagione era cominciata bene e non avevo mai affrontato la campagna del Nord con questo focus, non potevo sbagliare. Per la prima volta sono stata tre settimane in Belgio, con le mie compagne del Virtu Cycling Team avevamo fatto ben quattro ricognizioni, conoscevamo le strade della corsa come quelle di ca­sa, tanto da non aver nemmno bisogno dell’altimetria sulla pipa della bici. Il piano stilato con il direttore Carmen Small e il grande capo Bjarne Riis era attaccare sul Kwa­re­mont, resistere sul Paterberg e portare via un gruppetto per giocarmi la vo­lata. È andato tutto alla perfezione. Questo trionfo è la ricompensa per i lunghi periodi lontana da casa, per i sacrifici che affronto insieme alla mia grande famiglia. Mio marito Roberto, mia figlia Clarissa, i miei suoceri, i miei genitori. Loro sono la mia forza. La metto tra le più belle vittorie della mia carriera, anche se resta “solo” una gior­nata fantastica. Si­curamente non mi ha cambiato la vita».
Ti riferisci al montepremi?
«Non solo, ma quello è una prova lampante di quanta disparità ci sia ancora tra uomini e donne nella nostra società. Bettiol ha portato a casa 20mila euro, io 1.265. Entrambi abbiamo vinto il Gi­ro delle Fiandre, ma la differenza è abissale. Fa rabbia perché la fatica è la stessa, i sacrifici sono esattamente gli stessi se non superiori, ma noi siamo di­lettanti e senza i gruppi sportivi militari (Marta fa parte delle Fiamme Az­zur­re, ndr), che ci garantiscono un fis­so mensile, sarebbe impossibile continuare. Per gli uomini il ciclismo è un la­voro normale, con salario normale, per la maggior parte di noi no. Non è giusto. Il ciclismo femminile è cresciuto molto, ma di strada per arrivare al livello di quello maschile ne abbiamo an­cora tantissima da affrontare».
Vedi il giorno dopo il tuo trionfo la cancellazione last minute del Grand Prix de Dottignies per motivi di sicurezza.
«Una cosa incredibile. Ci eravamo allineate al via, eravamo pronte a partire, pur con la stanchezza infinita del giorno precedente ancora addosso. Ci han­no detto che la gara non si sarebbe cor­sa. Così, all’ultimo istante. Non ci ho visto più. L’avessero deciso qualche ora prima, avremmo preso un aereo presto e avrei guadagnato qualche ora da trascorrere a casa con mia figlia. Si parla di una riforma Uci per la parità dei sessi a partire dal 2020: sarebbe importante soprattutto per le giovani atlete, per dare prospettive di crescita a tutto il movimento, per fargli fare quel salto di qualità che serve da sempre. Correre lo stesso giorno degli uomini i più grandi eventi dell’anno è fondamentale. Ci dà visibilità, smuove l’attenzione degli sponsor, ma non ba­sta. Correre in mezzo a ottocentomila persone non capita mai, è una sensazione che può dare alla testa».
Tu però rimani con i piedi ben saldi a terra.
«Sì, guardo sempre avanti. Qualsiasi traguardo raggiunto, per me è un nuovo punto di partenza e non di arrivo. La sera del Fiandre ho festeggiato con le mie compagne di squadra. Da Sofia Ber­tizzolo che è stata una pedina molto importante per il mio successo a Barbara Guarischi, che nonostante una caduta è stata al mio fianco fino all’impossibile, passando per le altre strepitose ragazze della Virtu. Abbiamo al­log­giato in un B&B a Oudenaarde, ospiti di una famiglia di superappassionati. In questo posticino delizioso ne­gli anni hanno soggiornato tutti i più grandi specialisti del pavé. Ci hanno raccontato tanti aneddoti. Per loro il giorno delle Fiandre è più sacro del Natale. In Italia non ci rendiamo conto di quanto il ciclismo possa essere importante. Per i belgi è una festa, è la loro religione. Per farci un regalo, dopo la corsa la proprietaria ci ha cucinato la pizza. Poi sono andata all’hotel dove alloggiava Bettiol per il collegamento con la Domenica Sportiva e anche lì vai di brindisi... Nulla di più, anche perché pochi giorni dopo mi aspettava l’Am­stel Gold Ra­ce».
Come sei stata accolta al ritorno a casa?
«Non ho trovato chissà quali festeggiamenti ad aspettarmi, ci siamo rifatti a fine mese, con la scusa del mio compleanno quando si è riunita tutta la famiglia a Roseto degli Abruzzi, dove abito da quando sono sposata. Mio marito Roberto (l’ex professionista De Patre, ndr) doveva venire a vedermi dal vivo al Fiandre ma è scaramantico e, visto che si è convinto che quando mi segue da casa vado meglio come all’Europeo dell’anno scorso, mi ha incitato tra computer e tv. Clarissa quando sono rientrata mi ha detto: “A scuola ho detto che hai vinto” e al pomeriggio, quando sono andata a prenderla all’uscita dall’asilo, insieme agli altri bambini mi ha cantato una canzoncina sulla bici che le maestre le avevano insegnato. Mi sono commossa più che sul po­dio del Fiandre. Non è facile per una mamma stare tanto lontano da casa, ma sono fortunata ad avere una famiglia super affiatata che mi sostiene al meglio e delle maestre che per mezza giornata si prendono cura della mia bimba come se fosse figlia loro».
Dove hai messo il trofeo?
«In sala vicino all’Oscar tuttoBICI dell’anno scorso. Se riuscirò a ripetermi questa volta non mi perderò per nulla al mondo la vostra serata di premiazione. L’anno scorso sono mancata a cau­sa di un’operazione che avevo programmato già da tempo per rimuovere le tonsille, il cui post operatorio è stato più duro del previsto. Per 15 giorni non ho potuto mangiare cibi solidi né parlare. Roberto diceva che c’era una pace in casa... (ride, ndr). È stato complicato ma forse è stata la vera chiave di volta della mia carriera. Gli anni scorsi mi ammalavo 3-4 volte all’anno, arrivando ad avere la febbre fino a 40°. Per curarmi ero costretta a prendere gli antibiotici e ogni volta dovevo ripartire da capo con la preparazione. In più dopo l’operazione ho perso otto chili quindi mi sono presentata al via della stagione più leggera e pronta che in passato. Allenandomi e mettendo su muscolo, 3-4 chili li ho ripresi, ma sono sempre 3-4 meno di un anno fa e si sentono tutti. È proprio vero che l’unico modo per dimagrire è tenere la bocca chiusa e mangiare poco (sorride, ndr). Il “problema” è che sono una brava cuoca. Il piatto che mi viene meglio sono le lasagne. Non le posso mangiare spesso, ma ogni tanto mi tol­go qualche sfizio».
Prossimamente la stagione ti offre tante altre occasioni interessanti.
«C’è una maglia di campionessa europea che devo difendere e un percorso mondiale che mi si addice. Portare la maglia iridata per un anno è una cosa unica nello sport. Io lo so bene. Come per Bettiol il Fiandre, il Mondiale 2007 era stato la prima vittoria da professionista. A distanza di 12 anni ormai sono un’altra Marta. Oggi sono una donna di 32 anni, all’epoca ero una ragazzina di 19. Sono sposata, ho Clarissa, vivo con maggiore consapevolezza quello che faccio, non do più importanza co­me un tempo a quel che dicono gli al­tri. Da Glasgow ho messo nel mirino lo Yorkshire. Al mondiale, come in tutte le corse di un giorno serve anche un po’ di fortuna. Al traguardo del Fian­dre ho visto piangere Marianne Vos: era in grande condizione, era nell’attacco giusto, ha bucato a 15 chilometri dall’arrivo e ha dovuto dire addio ai sogni di gloria. Per vincere non devi solo essere forte, deve andare tutto li­scio. Speriamo per me e la squadra az­zurra sabato 28 settembre giri tutto co­me vogliamo».
Se vincessi il mondiale potresti chiudere con il botto. 
«Poi mi tocca fare come Valverde, che non smette più... (sorride, ndr). Quando i sacrifici vengono ripagati dai risultati è difficile appendere la bici al chiodo. Ho chiesto il trasferimento al mio gruppo sportivo perché un domani vorrei lavorare nel carcere di Teramo, non lontano da casa. Stan­no temporeggiando a concedermelo perché temono che poi io smetta. Bat­tu­te a parte, le Fiamme Azzurre mi so­no sempre state vicino. Quando volevo smettere mi hanno spronato a non mollare, quando sono rimasta incinta mi hanno aspettato, devo mol­tissimo a loro. Partecipare ai Giochi Olimpici è il mio sogno. L’olim­piade di Pechino 2008 per me era svanita a cinque giorni dalla partenza, quando la valigia era già pronta (tra il 2008-2010 il periodo più buio: ferma per una discussa positività, è vittima di due incidenti molto gravi, uno le è co­stato la frattura in quattro parti della mandibola, l’altro quello di una vertebra lombare, ndr). Quella di Londra nel 2012 era irraggiungibile. Una volta tornata dalla ma­ternità, c’era quella di Rio in cui sperare ma le cose non sono andate bene. Ora c’è quella di Tokio 2020, che non è più così lontana. Voglio chiudere in bellezza, da vincente, senza però sacrificare troppo la famiglia. Vorrei dare alla luce un altro bimbo, che è la cosa più bella del mon­do, la vittoria che auguro a tutte le cicliste».
Quella sì, ti cambia la vita.

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