Editoriale
ALTROCHEGIRO... Un giorno, probabilmente fra due anni, quando Mario Cipollini deciderà di riporre la propria bicicletta in soffitta, dovremo in ogni caso ringraziarlo.
Che piaccia o no il Re Leone del velocismo mondiale in questi anni non è mai passato inosservato. Il suo modo di essere, le cose che ha detto hanno sempre animato discussioni e dibattiti di ogni genere e tipo. Anche all’ultima Vuelta, il campione del mondo è stato oggetto di un violento quanto ingiusto bombardamento mediatico da parte della stampa iberica. La colpa di Cipollini? Aver disputato in pratica solo una tappa. Il bello è che l’accordo era esattamente questo: «Venga a correre anche solo una tappa», aveva detto il direttore della Unipublic, Victor Cordero, a Vincenzino Santoni che invece gli aveva prospettato di portare il campione del mondo in “borghese”, magari in due o tre tappe, semplicemente come uomo-immagine. Vabbè...
Il Giro dovrà mangiare ancora molta polenta prima di poter raggiungere i livelli organizzativi e d’immagine del Tour de France, ma piantiamola d’incensare la corsa spagnola. Sia ben chiaro: noi di tuttoBICI non eravamo sul posto, abbiamo seguito la corsa su Eurosport (bravi Andrea Berton e Francesco Frattini), ma a colpo d’occhio si percepiva che la «corsa rosa» ha ben poco da invidiare agli spagnoli.
Abbiamo scambiato parole quasi quotidianamente con diesse al seguito della corsa e tutti, nessuno escluso, hanno confermato le nostre impressioni: il Giro è tutt’altra cosa. Abbiamo ancora negli occhi la tappa di montagna di Plà de Beret, quella vinta da Joaquin Rodriguez, disputata al sabato per consentire una buona affluenza di pubblico. Bene, ci sembrava di assistere ad una frazione del “Trofeo dello Scalatore”, non alla tappa di uno dei più grandi Giri del circuito mondiale.
E poi, tornando al discorso iniziale, la giusta dimensione della loro corsa l’hanno data gli stessi organizzatori della Unipublic, gestendo in modo dilettantistico la vicenda Cipollini. Hanno voluto che il campione del mondo facesse una comparsata da sagra di paese?In questo modo hanno qualificato la loro corsa.

BUSINESSTOBUSINESS. Ho partecipato il 20 settembre scorso - nell’ambito della 61a edizione del Salone del Motociclo - ad un convegno promosso da Francesco Barberis, presidente di Udace/Csain, dal titolo: «Il doping nel ciclismo amatoriale: fenomeno diffuso o marginale?».
Se il problema sia diffuso o marginale non l’ho capito. Diciamo che neanche i relatori avevano elementi per poter dire una o l’altra cosa. Ma l’aspetto che più mi ha gettato nello sconforto è stato quello di constatare che ancora una volta le istituzioni non muovono un dito. L’allarme doping c’è, ma se la legge 376/2000 che demanda alle Regioni l’applicazione dei controlli per le attività amatoriali non ha ancora trovato applicazione c’è ben poco da stare allegri. Le Regioni non hanno soldi; il Ministero della Salute nemmeno; i laboratori convenzionati non sono stati ancora scelti, sempre per il problema sopra citato: la situazione è semplicemente allarmante e grottesca al tempo stesso. Vogliamo cacciare i mercanti dal Tempio, ma le istituzioni se ne guardano bene dal mettere qualche guardiano. In compenso le aziende farmaceutiche proseguono imperterrite e incuranti il loro scempio, immettendo sul mercato prodotti senza traccianti o, peggio ancora, assolutamente leciti sulle cui confezioni non sono riportate tutte le sostanze contenute. Tutto questo per creare confusione e anche alibi facili, a favore di quegli atleti che, una volta trovati con qualche nanogrammo di nandrolone o quant’altro nelle urine, possono tranquillamente dimostrare che in quel tal prodotto - comprato facilmente in farmacia o al supermercato - sono presenti tracce di sostanze vietate non riportate nella confezione. Quindi? Atleta scagionato con formula piena e tante scuse da parte delle istituzioni che devono accusare il colpo. Ad ogni modo ci assicurano che le Regioni, prima o poi, qualcosa faranno, anche perché i laboratori e gli esami antidoping diventeranno in un prossimo futuro una delle più floride fonti di guadagno.
Scusate il cinismo, ma questa è la nostra unica e ultima speranza. Contrapporre al dilagante business del doping quello dell’anti-doping. La cultura del guadagno è sempre la più convincente ed efficace. È triste doverlo ammettere, ma è così.

ENOIPAGHIAMO. Il caso è tornato prepotentemente d’attualità il 21 settembre scorso, quando Sergio Ercolano, il tifoso 19enne del Napoli rimasto ferito ad Avellino, è morto in seguito ai traumi riportati. Riunioni, provvedimenti del Viminale: «vieteremo le partite a rischio» (e vietare l’ingresso agli ultrà vi sembra una cattiva idea?). Ma vi chiederete: cosa c’entrano questi episodi con il ciclismo? C’entrano. Il calcio, che crea certamente interesse ed emozioni, è anche fonte di grandi tensioni e violenza, ma usufruisce - gratuitamente - di forze dell’ordine, che noi contribuenti paghiamo ogni settimana (circa 500 milioni di Euro a giornata). Il ciclismo
- di contro - per il corretto svolgimento delle gare e la sicurezza dei corridori, paga tutto di tasca sua. Ogni organizzatore si arrangia. Esempio, il più eclatante, ma vale anche per le corsette di paese: il Giro d’Italia (Rcs Sport), nel quale sono impiegate una quarantina di motociclette della Polstrada, grazie a intese particolari (leggi convenzioni), spende “solo” 300 mila euro (600 milioni di lire), mentre per una corsa come la Sanremo sono necessari non meno di ventimila euro. Insomma, se produci violenza vieni premiato. Se produci uno spettacolo a rischio zero devi pagare. Questa è la triste e amara verità. Paghiamo di tasca nostra per le questioni di ordine pubblico del calcio, mentre per il pubblico ordinato del ciclismo fanno tutti spallucce. Un consiglio: caro ciclismo, sappiamo quanto sei sportivo, antiviolento e incapace di fare male anche ad una mosca, ma almeno i pugni sul tavolo potresti farli sentire.
Pier Augusto Stagi
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