A un po’ di tempo ormai dall’incidente di Pantani e di altri due ciclisti alla Milano-Torino, possiamo tentare due ordini di ragionamento forse un po’ speciale, forse un po’ «diverso». Il primo è quello relativo alla pubblicità dell’incidente stesso e alla reazione ad esso. C’è stato, nel mondo del ciclismo ed anche dello sport, uno sconforto notevole, ma rapido, come per aderire ad un copione. Nel copione il posto largamente maggiore è stato riservato a Pantani, mentre per gli altri due - Dall’Olio e Secchiari - ha funzionato quello che io chiamo il «bene degli altri». Mi riferisco alle recensioni specie di grandi tradizionali opere liriche: chi le scrive si dilunga sul supertenore, sulla supersoprano, e poi, nelle ultime righe, scrive, se è stato un successo, «bene gli altri». Nello stesso copione c’è stato un po’ di sdegno per la dinamica dell’incidente, per la scarsa protezione data ai ciclisti, per l’autorizzazione improvvisa data all’automobilista che si è immesso nel percorso, e in senso contrario a quello dei pedalatori. E amen (per poco non era anche un requiem).
Non penso che la «recidività» di Pantani, che già il 1° maggio aveva fatto un serio incidente d’auto, abbia avuto qualche peso nella disinvoltura con cui tutto sommato la cosa è stata liquidata. Non riesco a pensare a quella che sarebbe stata la reazione se un calciatore celebre fosse stato ferito per causa esterna nell’esercizio del suo lavoro (però forse anche qui avrebbe funzionato, in caso di altri calciatori feriti, però di minore fama, il «bene gli altri»).
E allora? E allora devo desumere che il ciclismo contiene in sé una certa dose di masochismo, o se preferite attira una certa dose di sadismo. Il ciclista deve sanguinare, deve rischiare e ogni tanto patire, soffrire, sennò che ciclista è? Il ciclista deve convivere con il rischio, e ogni tanto il rischio ha il diritto, quasi il dovere di azzannarlo. Se il ciclista non soffre, è una signorina. Molto probabilmente c’è qualcuno che legge queste righe e si stupisce del mio stupore. Qualcuno che crede di amare il ciclismo ma che, se un corridore ha il coraggio di avere paura, dice che è un eufemismo.
Il secondo ordine di ragionamento riguarda il Tour de France, il cui tracciato è stato reso noto nei giorni delle ossa rotte di Pantani. È stato deciso che Marco avrebbe potuto, anzi dovuto vincere il Tour. Adesso, per la forza granitica dell’Ipotesi, nel Bar Sport assai più palpata del Fatto, Pantani sarà quello al quale il destino ha vietato di vincere il Tour 1996. Crediamo con questa definizione di ingrandire il corridore, in realtà lo paralizziamo dentro un pronostico-dogma (e non c’è contraddizione fra i due termini) che solo il ciclismo può permettersi, solo il ciclismo può scaraventare addosso ad un suo bipede. Povero Pantani, poveri gli altri due. E auguri a tutti e tre.
Faccio, approfittando di queste colonne e della loro ospitalità liberalissima, critiche anche sottili e magari un po’ contorte ai comportamenti umani, o disumani, intorno al ciclismo, e poi mi accade, scorrendo una nuova pubblicazione, una cosa che non so se ascrivere al mio cinismo, alla mia sprintissima presuntuosa professionalità, alla mia povertà sentimentale.
Ho guardato la fotografia grande e straziante dei genitori di Casartelli lì, alla curva di montagna dove è morto il loro figlio, accanto al segno rosso sulla strada, dove Fabio è caduto, accanto alla stele sommaria con il mazzo di fiori, e subito, per balordo riflesso di pedanteria, ho letto la scritta in francese che ricorda la tragedia, definita «une drôle de mort», una morte stupida, con tanto di pedante accento circonflesso, e ho visto che c’è un grosso errore: «trauvais» per “trovato” anzichè «trouvé».
Mi sono sentito bravo sì in francese, ma scarso in giornalismo e orrendo in sentimento. Forse vittima anch’io della sindrome da tragedia per cui nel ciclismo il sangue è un colore necessario in un affresco, un ingrediente cromatico, più che qualcosa che fuoriesce dal corpo e macchia - deve macchiare - di dolore tutti.
Chiedo scusa, ma non basta.
Z Z Z Z Z
Posso già scrivere due articoli su Atlanta ’96: uno dei due andrà bene.
Primo articolo: l’evviva al ciclismo italiano ma quello delle donne, che ci danno tante medaglie e che in patria, e persino nella loro stessa federazione, non sono trattate sempre bene, non sono considerate a priori e magari neanche a posteriori. Questo di fronte a grossi successi olimpici azzurri ora come ora, sulla scorta di un bel ’95, fortemente ipotizzabili, e in strada e in pista.
Secondo articolo: la delusione per i mancati successi delle nostre donne, la critica a chi ha riposto e fatto riporre in loro troppe attese (autocritica, anche, ma chi se ne accorgerà?), la domanda comunque su cosa ci sta a fare nell’Olimpiade questo ciclismo femminile, che sembra messo lì per premiare strane pedalatrici virago di paesi anche sconosciuti, di nuove repubbliche, di nuovi regimi.
Una volta c’erano i colleghi che davvero prefabbricavano due e anche tre articoli sullo stesso evento, e poi estraevano dalla cartellina la copia giusta e guardavano noi affranti come dei poveretti.
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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