QUINZIATO, IL TRICOLORE SAGGIO

PROFESSIONISTI | 30/07/2016 | 07:10
Ci sono corridori che è un ve­ro piacere intervistare. Par­lano di tutto, regalano aneddoti e curiosità, soprattutto risultano interessanti su qualsiasi argomento vengano interrogati. Manuel Quinziato, fresco campione italiano a cronometro, è uno di questi. Mai banale, lo trovi preparato e con un’idea ben precisa, che si parli di temi giuridici, economici, religiosi, sociali (è orgoglioso donatore di midollo osseo) e chissà che altro.

«Coraggio, mente felice e saggezza. In gara ho applicato le tre virtù del bud­dhismo».
È la sua prima battuta ripensando a come ha conquistato la sua prima maglia tricolore della carriera. Così, giusto per darvi un assaggio di che tipo sia.

Il trentaseienne bolzanino, due volte iridato nella cronosquadre con i compagni della BMC, il mese scorso si è laureato Campione d’Italia a cronometro. Ha percorso i 41,3 km in programma in 49 minuti netti a più di 50 km/h di media. Nella specialità vantava già il 2° posto del 2003 e due terzi posti nel 2006 e nel 2007: a Romanengo (Cr) è riuscito a lasciarsi alle spalle Manuele Boaro della Tinkoff e Moreno Moser della Cannondale in una prova resa apertissima dall’assenza del vincitore delle ultime due edizioni, Adriano Ma­lori, ancora alle prese con il recupero dopo la brutta caduta al Tour de San Luis in Argentina.

Come hai costruito questa vittoria?
«Erano sei anni che non partecipavo alla sfida tricolore contro le lancette e anche quest’anno non era la mia priorità. Non ero sicuro di poter correre, altri anni per averlo preparato mi ero stressato troppo e questa volta avevo concluso il Giro davvero stanco. Non avevo recuperato a pieno gli sforzi del­le classiche e nelle tre settimane rosa ho sofferto. Dario Broccardo, che mi segue come preparatore dal 2008, al termine del Giro mi ha consigliato una settimana senza bici, poi una di brevi uscite e due allenamenti più intensi con la bici da crono. “Poi decidiamo cosa fare”, sue testuali parole. A quel punto io, a dire la verità, non avevo grandi sensazioni ma lui mi ha convinto. “Pro­viamoci, facciamolo come allenamento”. Così ho affrontato 12 uscite con la bici da crono, anche lunghi di 130 km e lavori specifici come ripetute da 5’ a 20’ minuti. Man mano le sensazioni sono migliorate e la settimana pre­cedente la gara, guardando alla ve­locità e ai watt che riuscivo ad esprimere, mi ero reso conto di andare forte. Ero convinto di poter fare un’ottima pre­stazione. Il mio obiettivo era ri­schiare di andare un po’ più piano di quello che avrei voluto nella parte iniziale per poi finire forte e non ritrovarmi al gancio all’ultimo giro. Questa tattica ha pagato, altri sono calati mentre io sono stato costante».

È stata la tua crono più consistente?
«Penso proprio di sì. Il mio amico al­banese Agron Shelai, che fa l’imprenditore e mi segue come mental coach (è davvero capace di spronarmi come po­chi altri), mi aveva chiesto di non presentarmi a mani vuote la sera della gara per la cena che avevamo in programma. Non potevo deluderlo. Lui non si la­scia mai andare, non molla mai la cinghia con me, ma è stato contento tanto che non mi voleva più lasciare tornare a casa. Oltre a lui hanno festeggiato tut­ti i miei cari. Ho voluto dedicare la vittoria ai miei genitori Marilena e Di­no perché sono le persone più vicine e a volte proprio di chi ci sta più accanto ci dimentichiamo. Mentre io ero al Gi­ro papà è caduto e ha rimediato la frattura di 4 costole, poi in ospedale si è preso un’infezione, io ero via, è stato un mese difficile. Dopo la corsa rosa sono tornato a Bolzano per stare con i miei, ora sta meglio e a casa è tornata la serenità. Questa vittoria alza il morale di tutti».

Cosa ti ripetevi durante la prova?
«Mente felice. Coraggio. Saggezza. Le basi del buddhismo. Ho cercato di ap­plicarle in gara avendo un approccio sereno, senza farmi spaventare dai giovani rampanti con cui dovevo confrontarmi come Martinelli o Moscon, e mi sono gestito al meglio. Questo è solo uno degli insegnamenti che ho ricevuto da una monaca australiana. Robina Cour­tin è stata il primo maestro importante che ho visto dal vivo, due anni fa. Lei è una rockstar. Ha 70 anni, da 30 anni è monaca buddista, ma prima è stata hippy, femminista, comunista... È una molto diretta, lei si definisce addirittura rude, parla semplice e arriva al sodo. Le ho parlato alla fine di tre giorni di conversazioni e mi sono reso con­to semplicemente guardandola negli occhi che è una persona speciale, è sì buddista ma occidentale e per questo più vicina a noi. Mi ha dato molto, tante sue frasi mi sono rimaste impresse».

La religione ha un ruolo importante nella tua vita?
«Diciamo che da qualche tempo sto fa­cendo un percorso spirituale, sto lavorando su me stesso. Nel 2012 ho vissuto un periodo difficile che mi ha fatto rivalutare quello che ho. Non sono stato bene emotivamente e ho capito che i problemi spesso ce li creiamo da soli. Come dice Buddha “Noi siamo quello che pensiamo. Tutto ciò che siamo nasce con i nostri pensieri. Noi creiamo il nostro mondo”. Ci credo fermamente. Ho trovato il mio equilibrio perché ho capito che se desidero qualcosa la distanza che mi separa da essa può essere colmata con l’impegno e la dedizione che ci metto».

Che sapore ha questo successo?
«Ha un significato speciale, nel corso della mia carriera ho vissuto grandi de­lusioni ma un po’ alla volta sto portando a pari i conti col destino. Tre an­ni fa persi il mondiale della cronosquadre per due secondi, negli ultimi due anni l’abbiamo vinto; all’Eneco Tour avevo sfiorato la vittoria che la scorsa stagione è arrivata nell’ultima tappa; ai Campionati Italiani ero arrivato sul po­dio ma mai ero riuscito a vestire la ma­glia tricolore, da Under 23 nel 2001 ave­vo vinto l’Europeo ma non l’Ita­lia­no. Detto questo, dobbiamo riconoscere che a Romanengo c’era un assente, Adriano Malori, il campione uscente infortunato. L’ho sentito dopo la vittoria. Si è scusato per non avermi citato nel tweet che ha rivolto ai favoriti della vigilia (@ALANMARANGONI @Da­rioCataldo @BoaroManuele @More­noMoser x domani chiunque di voi vinca se la goda che nel 2017 vengo a riprenderla hihihihih, ndr) e mi ha fatto i complimenti. Fantasticando di vincere ho pensato molto a lui, l’anno prossimo voglio restituirgliela, il massimo sarebbe ritrovarci assieme sul podio. In questo momento sta pedalando in salita con la sua solita caparbietà, gli auguro con tutto il cuore di riprendersi questa maglia e tutto ciò che desidera».

Tra pochi giorni arriverà Gabriel, per lui quale dedica hai in serbo?
«Beh, spero di vincere altre gare dopo la sua nascita. Ho conosciuto Patricia alla Vuelta a España 2008, era una delle miss del podio, vincemmo la cronosquadre il primo giorno e preso dall’entusiasmo ho messo da parte la mia proverbiale timidezza per conoscerla, poi sapete com’è, da cosa nasce cosa ed eccoci qui. Il 24 ottobre abbiamo detto il fatidico sì a Santiago de Compostela, viviamo insieme a Madrid e ora aspettiamo il nostro primo bimbo. Tornando alle gare, dopo la grande emozione della paternità volerò ad Amburgo prima di andare due settimane in ritiro per preparare la cronosquadre, quindi Eneco Tour per rifinire la condizione e mondiale. Dovrei disputare sia la prova di squadra che quella in linea».

Ti piacerebbe un giorno che tuo figlio corresse in bici?
«Sicuramente lo spingerò a praticare uno sport di fatica e non dei giochi, c’è una grande differenza. Conosco atleti di varie discipline e so che sport impegnativi insegnano che il lavoro paga, che la dedizione è importante, in questo senso la bicicletta mi è stata utile nella vita, mi ha spinto a cercare ri­sultati e non scuse, a lavorare duro, mi ha fatto capire a suon di lezioni che tutto è nelle mie mani. Il ciclismo è uno sport estremamente educativo, ripensando alla mia giovinezza sono certo che mi ha aiutato a stare lontano da brutte com­pagnie e a di­ven­tare la persona che sono. Da bambino ho provato di tut­to. Papà voleva che sapessi fare il più possibile così se a 20 anni fossi andato con gli amici in montagna avrei saputo sciare, al mare avrei saputo nuo­tare e così via. Ho iniziato con il karate, mia madre esasperata dalle capriole che facevo in soggiorno ha seguito il consiglio della pe­diatra, mi serviva un po’ di disciplina. Poi mi sono cimentato con la bmx, la pallamano, il triathlon, il tennis, il nuo­to e chi più ne ha più ne metta. An­dan­do avanti scegli lo sport in cui riesci meglio perché ti diverti di più. Mi divertivo con la bmx quando un giorno mi chiesero se vo­levo andare a vedere una ga­ra su strada a Merano. Avevo 8 anni, senza sapere come funzionasse chiesi di partecipare e fui ac­contentato. Ar­rivai quinto, al secondo posto si piaz­zò una ra­gazza. Pensai: “Ci sono margini di mi­glio­ramen­to”».

Hai rinnovato con la BMC per un an­no.
«Sì, il 2017 sarà il mio settimo anno in maglia rossonera. La decisione è stata facile. Non so­no più tanto giovane, ma credo di aver pedalato a buon livello in questo ultimo anno, sia quando lavoravo per la squadra sia quando inseguivo risultati personali. Sono professionista da quindici anni, ma questi in BMC sono stati sicuramente i mi­gliori dal punto di vista sportivo. Ho sempre considerato il ciclismo come uno sport in cui o sei in grado di vincere tu le corse o devi farle vincere ai ca­pitani. Per qualche stagione ho provato a dire la mia, mi sono piazzato tra i primi dieci in corse prestigiose ma alla fine penso di essere diventato un ottimo uomo squadra. Sono soddisfatto del mio lavoro, gregario non è una qualifica disdicevole, ma sono anche felice di aver dimostrato ancora una volta di saper sfruttare le occasioni. Il lavoro è lavoro, ma nessuno fa questo mestiere solo per portare a casa lo stipendio. Anche io amo prendermi qualche soddisfazione personale. Siamo professionisti ma lo sport è basato sulla gloria. Quando tra 20 anni mi volterò indietro, sono le giornate di gloria quelle che rimarranno».

Tra vita privata e professionale per te si sta delineando un anno perfetto.
«Magari a dicembre mi laureo anche, sarebbe ora (sorride, ndr). Mi manca solo la tesi, la farò in diritto amministrativo a Trento con il professor Ful­vio Cortese. L’argomento sarà la convivenza tra giustizia sportiva e quella ordinaria. Tornando al lavoro, ne parlavo con Broccardo e altri amici proprio nei giorni degli Italiani: il 2014 con la vittoria del primo titolo mondiale della cronosquadre ha rappresentato un po’ la svolta nella mia carriera, la stagione scorsa è stata super positiva e quest’anno finora è andata ancora meglio. Sono contento ma mancano ancora dei mesi alla fine del 2016 quindi andiamo avanti con mente felice, coraggio e saggezza. Il 31 dicembre tireremo una linea e potrò dirti se è stato il mio anno mi­gliore di sempre».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di luglio
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