MODUS VIVENDI. Viaggio tra i segreti di Aru. GALLERY

PROFESSIONISTI | 24/10/2015 | 07:02
«La prima volta che è entrato nella nostra pa­lestra si guardava in gi­ro perplesso, non sapendo che fare. Tiralongo e Vanotti che già stavano svolgendo degli esercizi allora gli hanno detto di cambiarsi, di muoversi che era già in ritardo. Non aveva mai svolto la preparazione invernale tra attrezzi e tappetini, sbagliava anche i più semplici addominali: riguardando le foto di allora sorridiamo pensando a quanto è cresciuto».

Maurizio Mazzoleni ci accoglie con la compagna Alice nel centro del movimento applicato Modus Vivendi a Pre­sezzo (BG) e, con ancora fresche le emozioni della vittoria di Fabio Aru alla Vuelta a España, ci racconta la stra­da che ha permesso a questo ragazzo sardo abituato ad allenarsi nel fango del ciclocross di arrivare ad essere uno degli uomini di riferimento a livello internazionale per le corse a tappe.

Quanto sei contento per questa maglia rossa che fa bella mostra di sé all’ingresso del vostro centro?
«Tanto perché se è vero che in parte avevo assaporato le vittorie di Nibali, la collaborazione con Fabio va avanti dall’inverno 2012 e questo successo è merito di mesi di lavoro a cui ho contribuito in prima persona. Non amo gli exploit, mi piacciono le progressioni lineari come quella vissuta da Fabio e il suo gruppo che è cresciuto man mano. Basti pensare al suo percorso: nel 2014 ha vinto una tappa al Giro ed è arrivato terzo nella generale, ha provato a mettersi in gioco in due grandi corse a tap­pe e ha trovato due picchi di forma tan­to che alla Vuelta ha vinto due tappe e chiuso quinto nel confronto con i mi­gliori al mondo; quest’anno ha vinto due tappe al Giro e ha conquistato il secondo gradino del podio dietro a un certo Contador nonostante l’avvicinamento alla corsa rosa non sia stato dei migliori e in Spagna ha trovato la consacrazione. Questo risultato prestigioso dà senso al nostro lavoro, è una bellissima gratificazione».

Che emozione hai provato a Madrid?
«È stata una giornata piena, sono partito da Bergamo al mattino presto con Paolo Tiralongo e i fratelli Carera (procuratori di Aru, ndr), abbiamo seguito la tappa e ovviamente non ci siamo per­si i festeggiamenti serali. Con Fabio ci siamo guardati dritti negli occhi e ci siamo abbracciati, in certe occasioni i gesti valgono più di mille parole. Du­rante l’anno siamo sempre proiettati al lavoro metodico, siamo tutti così impegnati che non abbiamo mai il tem­po per alzare la testa e guardarci attorno, in occasioni come questa invece ca­pisci che il lavoro di squadra dà i suoi frutti e ti godi appieno il risultato. I discorsi di ringraziamento a cena mi hanno commosso, ognuno ha detto la sua, abbiamo ripercorso questi tre anni insieme e personalmente ho ripensato alla mia crescita professionale al fianco di questi ragazzi».

Puoi svelarci qualche dato relativo alla prestazione di Fabio?
«Nelle tre settimane della Vuelta ha raggiunto standard elevati. A crono ha ottenuto i migliori picchi di sempre, ha mantenuto i 350/360 watt medi per ol­tre 40 minuti, in salita ha dato il meglio di sé, superando la soglia dei 6 watt pro kilo. Ha dimostrato ancora una vol­ta le sue doti di scalatore e di resistenza all’acido lattico nelle salite lunghe. In questa corsa ha fatto un grande passo in avanti nella gestione degli arrivi in salita. Analizziamo il blocco di tre tappe di salita nella settimana centrale: nelle prime due ha provato a fare la corsa attaccando e nel finale ha perso qualcosa da Rodriguez e Dumoulin, men­tre in quella vinta da Schleck - quando sembrava più attardato - invece ha studiato la situazione e ha capito di dover dare tutto nel finale. Ha dimostrato che anche sui terreni più insidiosi, se si gestisce bene, può dire la sua».

Le giornate chiave?
 «La cronometro, perché con una buo­na prova si è messo dietro tutti ad eccezione di Dumoulin, che restava l’unico vero rivale per la classifica. Nell’ultima parte era sui tempi dell’olandese, in salita è stato eccezionale rispetto agli al­tri scalatori. Ha sofferto nella tappa vinta da Rodriguez e l’ultimo venerdì quando è caduto. A fine tappa era davvero arrabbiato. Sabato mattina eravamo in dubbio sulla sua condizione, ancora adesso ha un evidente ematoma sul fianco, ma con la squadra è riuscito a fare un capolavoro. La tattica era di sfiancare Tom Dumoulin nelle prime due tappe dopo la crono - un passista se lo porti al limite in salita prima o poi cede -, infatti a Fabio ripetevo di stare tranquillo. Stavamo seminando, avremmo raccolto. Nella tappa precedente alla passerella finale, nelle prime salite sentiva di non essere al cento per cento per le conseguenze della caduta, ma una sua caratteristica è di migliorare chilometro dopo chilometro: anche se non è al top, quando arriva il momento della resa dei conti riesce a tirare fuori il meglio di sé, lo faceva anche da dilettante. Ricordo le foto di una corsa finita con la bici in spalla, ma basta pensare a quanto fatto più di recente al Giro, nella tappa di Cervinia: di carattere è davvero tosto. Così alla Vuelta, insieme ai suoi compagni, sabato ha messo la ciliegina sulla torta».

Come è uscito da questa esperienza?
«Un Grande Giro a livello fisiologico ti cambia. Vincerlo influisce sia sul motore che nella consapevolezza di poter lottare per primeggiare in qualsiasi cor­sa a tappe. Abbiamo messo un altro mat­toncino: al suo quinto Grande Gi­ro ha conquistato il terzo podio, ha sicuramente acquisito la fondamentale fi­ducia nei propri mezzi. È ancora giovane, dovremo lavorare su tutti gli aspetti. Andremo a rafforzare i suoi punti forti con scatti e ripetute in salita ma lavoreremo anche sulle sue debolezze che possono diventare carte vincenti: ha margini di miglioramento nelle cro­no o in arrivi con strappi più esplosivi adatti a corridori come Rodriguez. Fa­bio non ha ancora raggiunto la maturità fisica, non ha ancora completato il suo percorso fisiologico di crescita, ogni anno supera un gradino in più, per questo è molto interessante lavorare con lui. Quest’anno per esempio ci siamo concentrati tanto sulla cronometro, al Giro non abbiamo raccolto i se­gnali che ci aspettavamo, arrivati invece al Giro di Polonia e alla Vuelta. È molto meticoloso, il lavoro svolto sulla posizione in sella sta dando i suoi frutti, dobbiamo continuare a darci da fare in questa direzione».

Si parla molto di una possibile rivalità tra lui e Nibali.
«In realtà non esiste alcuna frizione all’interno della squadra. Vincenzo è stato tra i primi a complimentarsi con Fabio e lui a sua volta gli ha regalato una sua maglia rossa, come fatto con tutti i compagni e lo staff. Sono due ragazzi intelligenti che possono coesistere nello stesso team se i loro programmi si incastreranno a dovere, sono attorniati da tecnici competenti che sa­pranno gestirli evitando attriti e da compagni professionali pronti a dare il massimo per entrambi. Fabio sta avendo una crescita simile a quella di Vincenzo, hanno vinto la Vuelta praticamente alla stessa età, Vincenzo è ve­ro ha esordito prima al Tour, ma questi confronti lasciano il tempo che trovano. Sono due talenti che dobbiamo tutelare, l’Italia deve esserne fiera, sono un patrimonio».

La celebrità lo sta cambiando?
«Assolutamente no. Fa­bio è l’atleta perfetto con cui lavorare dal punto di vista di un preparatore. Ha voglia di imparare, è ricettivo, molto predisposto ad apprendere e sviluppare gli input che gli si fornisce, ci ragiona su e li fa suoi. È curioso e molto professionale, con lui si riesce ad avere uno scambio di informazioni importante, ragiona sui numeri, valuta gli allenamenti e as­sieme scegliamo come procedere nel cor­so della stagione. Lavora bene, dall’inverno in palestra ai lavori specifici che prevedono l’avvicinamento a un appuntamento importante. Oltre a ciò ha i numeri del campione e tanti anni davanti a sé per crescere. Non potrei chiedere di meglio. La sua crescita è continua, data dal lavoro costante. Il bello è che non conosciamo ancora quali siano i suoi limiti. Applicandosi con metodo, cercheremo man mano di alzare l’asticella».

Un ricordo degli inizi di Fabio?
«Odiava allenarsi al chiuso in palestra, arrivava dagli anni del ciclocross e vo­le­va stare all’aria aperta. Nell’inver­no del 2012, quando abbiamo iniziato a lavorare assieme, ricordo che un giorno mentre era sul ciclomulino guardava sul cellulare le previsioni meteo e ve­dendo che davano brutto anche i giorni seguenti decise di prenotarsi il volo per la Sardegna per il pomeriggio stesso e chiamò la madre dicendole: mamma torno a casa, ma solo per allenarmi, mi raccomando non cucinare troppo. Il cor­ridore c’era già e che carattere, ra­gazzi! Non sopporta di perdere giorni di allenamento. Quando andò in Kaza­kh­stan per la presentazione della squadra ci fu un problema con i voli a causa della neve, appena tornato uscì in mtb. Chie­se a Tiralongo se voleva andare con lui sulla Roncola, saggiamente Paolo gli disse che era meglio stare in zona per evitare rischi in discesa. Fabio fece di testa sua e andò, tornando scivolò e battè il gi­nocchio. Niente di gra­ve per fortuna ma gli toccò andare in To­scana per farsi rimettere in sesto da Michele Pallini (massaggiatore di Ni­bali, ndr)».

È un bel testone.
«Già, ma sa anche ascoltare. E poi per reggere certe pressioni e arrivare a si­mili traguardi bisogna avere un certo carattere. Lui lo ha dimostrato a tutti al Giro di quest’anno, ha saputo tener duro, come ha detto Contador è nel superare le giornate no che si riconosce un corridore che può lottare per la vittoria in un Grande Giro da tutti gli altri. Come ho ripetuto spesso a Fabio, la sofferenza provata nel giorno del Mortirolo gli sarebbe tornata utile: è stato un momento di crescita, quando sopporti una fatica estrema porti sia il motore che la mente a un altro livello. Gliel’ho ricordato anche alla Vuelta do­po la caduta: riproverai una fatica del genere quando sarà il momento di vincere un grande giro».

Si sta dimostrando anche un leader.
«Davvero. Ha trascorso il mese di lu­glio al Sestriere con Cataldo, Rosa, Ti­ra­longo e Zeits e le loro famiglie, si è guadagnato la stima dei suoi uomini e con loro ha consolidato un rapporto per cui in corsa sono tutti uniti per una causa sola. Vi ricordate cosa ha fatto Zeits nella tappa che ha deciso la Vuel­ta? Ha dato l’anima per il suo capitano e ha costretto alla resa Du­mou­lin. Un altro esempio? Il comportamento di Landa e il loro abbraccio tagliato il traguardo nella tappa regina. Mikel è un grande talento, si è tolto le sue soddisfazioni ma si è anche sacrificato per la squadra, volentieri. Un’altra abitudine portata in casa Astana da Fabio, oltre alle mogli e fidanzate in ritiro (con Va­lentina forma una bellissima coppia!), è la riunione tra i soli corridori nel do­pocena. Sul bus dopo ogni tappa i ra­gaz­zi si confrontavano bevendo un caffè, anzi un ginseng visto che ormai so­no tutti attenti all’alimentazione... Analizzavano la giornata, si parlavano faccia a faccia, lontani da manager e diesse. Un confronto sincero, vero».

Prossimi obiettivi nel mirino?
«Non è ancora tempo per un programma definitivo ma a Fabio piacerebbe confrontarsi con la Grande Boucle. Siamo pronti a un 2016 fatto di successi ma anche di esperienza come quella fondamentale che dovrà accumulare al Tour. Se la squadra punterà su di lui in Francia, partirà con la convinzione di poter raggiungere un ottimo risultato ma senza troppa pressione, essendo alla prima partecipazione nella corsa a tappe più prestigiosa al mondo. Ha dimostrato di saper gestire la pressione e il gruppo, di saper motivare i compagni e arrivare al cento per cento agli appuntamenti. Il suo gruppo ha dimostrato di essere forte e compatto, ora deve puntare ancora più in alto».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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