Collezionista di titoli. Il primo, nobiliare, dalla nascita: conte di Molviano, frazione del comune di Campli, provincia di Teramo. Poi, in disordine cronologico: socio fondatore dell’Anugc (Associazione nazionale ufficiali di gara del ciclismo), stella d’oro e stella d’argento al merito sportivo del Coni (Comitato olimpico nazionale italiano), presidente onorario dell’Unvs (Unione nazionale veterani sportivi), grande ufficiale, nonché – per campare – dirigente della Cge (Compagnia generale elettricità). Perché per il conte – e non sarà un caso che nobile, ma barone, era anche l’olimpico Pierre de Coubertin – lo sport è sempre stata ricreazione.
Vittorio di Cugno, nato a Trani il 3 gennaio 1919 (e Giuseppe Figini ne ha tratteggiato la vita in “Giudici di gara, la storia” per Tuttobiciweb), aveva cominciato sul campo: responsabile del settore giovanile dello Sport club Genova 1913 di Milano, la società di Primo Bergomi e Alfredo Binda, di Nando Terruzzi e del presidentissimo Adriano Rodoni. Ma era un uomo troppo preciso per oscillare fra gli umori dei ragazzi, l’incertezza delle corse, perfino la variabilità del tempo, e così si dedicò a una scienza esatta: il cronometraggio.
Alla guida dei cronometristi italiani, il conte di Cugno – a un certo punto della vita anche una vaga somiglianza con Vittorio De Sica – redigeva dispense tecniche, modelli esemplificativi di piste, casistiche, spiegazioni, integrazioni dei regolamenti, vademecum annuali. Perché il tempo non è assoluto, e la verità neanche. E per non lasciare spazio a interpretazioni, è indispensabile prevedere o sancire, regolare o regolamentare. E di Cugno s’impegnò. Fu lui a imporre le divise, poi le tessere per entrare gratuitamente nei velodromi e a tutte le gare. Fu lui a spingersi oltre il cronometraggio manuale fino ad arrivare a quello automatico e al photofinish.
Pignolo, puntuale, millimetrico, disciplinatissimo, di Cugno detiene ancora un paio di record. Il primo, come giudice d’arrivo, è avere trovato la parità assoluta: due primi posti, a Giorgio Albani e a Toni Bevilacqua, in ordine alfabetico, nell’ordine d’arrivo della Coppa Bernocchi del 1953. Il secondo, come giudice di gara, è avere impedito ad Antonio Maspes di gareggiare senza i calzini bianchi d’ordinanza, respingendo, scettico e forse anche indignato, le fantasiose giustificazioni del furbissimo sprinter.
Ma un uomo così ligio a norme e regole, dunque onesto, dava fastidio alle istituzioni. Fu così che Di Cugno venne addirittura radiato. Lui ricorse in tutte le sedi finché ottenne giustizia. Troppo tardi per collaborare ancora con la Federazione. Ma non per seguire la propria categoria. Tant’è che il conte ha disposto un lascito testamentario di 50 mila euro per la cura e la manutenzione della lapide che onora tutti i giudici di gara nel Santuario della Madonna del Ghisallo.
Ma giudici e preti hanno voglia ad aspettare. Di Cugno, che a Milano in zona Solari viaggia lucidamente, anzi, aritmeticamente verso i 97 anni, non vede ancora il traguardo.
Marco Pastonesi, da «Pane e Gazzetta»
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