TUTTOBICI | 07/03/2014 | 09:22 Ormai ci siamo quasi, quest’anno c’è il percorso nuovo, chissà che se ne parli più dell’anno scorso (non è difficile, basta poco). E che ci sia tanta gente sulle strade, portata lì anche dal tempo bello, o dal maltempo che condisce il sadismo voyeuristico di chi va a vedere gli altri soffrire. E che i giornalisti non corrano subito tutti (ma non ce ne sono poi tanti) al traguardo della televisione, approfittando dell’Autostrada dei Fiori. Sto scrivendo della Milano-Sanremo. E gioco al gioco di chiedermi se qualcuno ha idea di cosa era una volta la Sanremo per un giornalista di ciclismo, un “inviato speicale”. Insomma, il padre o anche il nonno professionale di quello che adesso strimpella al computer e va alla conferenza-stampa del vincitore. Racconto, insomma, la mia Sanremo. Una per tutte e sono state tante, ed escludo le due che ho seguito in motocicletta, epos troppo facile. Una Sanremo del secolo, ma che dico del secolo?, del millennio scorso.
Dunque la vigilia a Milano, l’albergo presso la stazione, sempre quello, d’altronde in zona c’erano tutti gli alberghi dei corridori. Non li vedevamo mai in giro, però erano immanenti. La punzonatura era in via Galilei, presso il palazzotto sede della “rosea”, appoggiato ad un luna park permanente detto delle Varesine. Il rituale era fisso. Attesa dei corridori finalmente materializzati ergo visibili, scambi veloci e banali di parole con i più celebri, nessuna dicesi nessuna ricerca di sensazionalismo, di scoop, con i colleghi progetti sul dove andare a cena la sera, tanto si sapeva che si sarebbe finiti tutti da Sauro, nel grande piazzale della stazione, Sauro dal naso lungo da ciclista e dalla parlata toscomeneghina e dal conto esile, che faceva felici i nostri amministratori. La mattina inserimento nella carovana di bici, moto e auto che lasciava il centro di Milano per il via effettivo sui Navigli. Poi la corsa.
La corsa che era un nostro correre avanti, spinti da ordini via radio e, se a portata di occhi, da gestacci di Vincenzo Torriani il patron. Lo speaker massimo di radio-corsa era un antiquo giornalista della “rosea”, e lui francesizzava i nomi delle località italiane, tutti. Pavia era Pavie, pazienza. Ma sul Turchino Masone diventava Mason, e trovato il mare c’erano Voltrì e Aranzanò, prima di Selle che era poi Celle e Varàs che era poi Varazze. Non ci si fermava a lungo per mangiare. Panini al volo, in qualche bar. La dominazione della televisione ci avrebbe poi intruppati tutti a Ovada, ristorante prima l’Italia in centro, poi (proprietario lo stesso, ma locale nuovo) la Volpina fuori dall’abitato, grande cucina piemontese-ligure, strippate, quando i corridori arrivavano li guardamo passare tanto l’autostrada ci avrebbe permesso di bucare il mitico e anzi mistico (per il ciclismo, colpa di Coppi e di una sua impresa celestiale) Turchino staccandoli, così da arrivare a Voltrì prima e poi fare un po’ di Riviera Ligure con loro, precedendoli si capisce, sempre che il richiamo dell’autostrada non fosse troppo forte. Io puntavo su Bergeggi, che è un’isola ma anche una frazione terricola prima di Spotorno, lì mi aspettava un grande ex del calcio, Ermes Muccinelli, juventino ma ciononostante amico, che si era ritirato dopo ancora un po’ di Lazio in Liguria, al sole o quasi, conclusa una grande carriera anche azzurra, da ala guizzante piccina piccina piciotta picciò. Teneva una casa che dava sul mare e lì mi invitava ad un liquorino portato da una donna sempre nuova e sempre bella, quelli della mia auto si godevano la celebrità calcistica, lui per me faceva finta di essere innamorato della bicicletta e diceva che il ciclismo sì era sport vero, di vera fatica.
Insomma si raggiungeva Sanremo, l’arrivo anzi quasi sempre la volata, la sala stampa lì a due passi dal traguardo, nei locali di un ufficio postale, impossibile resistere all’offerta da parte di girls dell’ufficio turismo di tocchetti di pizza sanremese, detta sardinaria, senza formaggio ma con capperi e pinoli e odore di pesce. Finito il lavoro, scrittura e dettatura, quelli dei giornali poveri salivano in auto per tornare in sede, quelli del giornali ricchi, le cui amministrazioni pagavano anche una cena - comunque cara - a Sanremo, andavano al casinò, dove c’era sempre un patron di una qualche squadra, con corte assortita, e ti offriva pure le fiches perché tu stessi alla roulette accanto a lui. Qualche giornalista aveva convocato all’arrivo la compagna, la moglie, e persino la famiglia: che si godesse anch’essa Sanremo, poche ore ma indelebili. Ricordo che il mio giornale dai tanti inviati affittava due camere all’hotel Nazionale, accanto al casinò, casomai alla sala stampa difettassero le linee telefoniche e fosse opportuno andare a dettare i pezzi dall’ammanigliatissimo hotel. Ma ci era ben chiaro che le stanze erano state pagate poco, impossibile pensare di usarle per il pernottamento. In linea di massima era dunque un ritorno in piena notte a casa (per quel che mi riguardava, Torino). Felici di essere al mondo, di essere ciclofili, di essere giornalisti, di essere andati a Sanremo anzi alla Sanremo.
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