PROFESSIONISTI | 28/06/2013 | 10:37 «Chi è buono, è buono sempre». Aveva ragione Eusebio Unzué, suo team manager alla Movistar. Giovanni Visconti al Giro d’Italia è morto e risorto, a un anno di distanza. Nella quindicesima tappa del 2012 non era riuscito a raggiungere il traguardo di Pian dei Resinelli bloccato da una crisi di panico, dopo 365 giorni bui nella quindicesima tappa con arrivo al Galibier si è sbloccato. Ha patito in una giornata di freddo e neve, liberandosi di tutte le sue paure e rialzando le braccia al cielo dopo un’astinenza troppo lunga da digerire per un predestinato come lui. È risorto di fianco al monumento di Pantani, nato il suo stesso giorno (13 gennaio), su una cima mitica e dopo tre giorni da quel pianto liberatorio a Vicenza ha riassaporato la gioia pura per quella che lui stesso ha definito la «prima vittoria della sua nuova carriera», la prima gioia piena e vera dopo un anno amaro. Un segno della croce, lento e profondo: interminabile. E poi quelle braccia spalancate a cercare l’abbraccio del mondo, che ricorda proprio quello di Marco Pantani a Monte Campione. Gamba piena e buona, dice lui. Ma soprattutto gran bella testa, finalmente sgombra da cattivi pensieri, che lo minacciavano e lo bloccavano in maniera quasi irreversibile. Quella di Vicenza è la sua vittoria, da grande finisseur, da corridore svelto e intelligente. La vittoria della rinascita vera e consapevole. Ripartiamo dalla tua ultima vittoria della “vecchia” carriera, ripercorriamo il Galibier. «L’arrivo tra le nevi del Col du Galibier (su cui è giunto al traguardo con 42”di vantaggio sul colombiano Betancur e il polacco Niemiec, ndr) è stato la chiave di volta. Con il freddo in genere non rendo molto ma in una giornata dal sapore speciale, nella tappa dedicata a Pantani, mi sono sbloccato. Forse da lassù mi ha davvero aiutato Marco, ricevere la telefonata di sua mamma Tonina alla sera è stato uno dei più bei regali di un giorno che probabilmente mi ha cambiato la vita. Ho trascorso dei mesi davvero difficili. Da essere considerato un predestinato e dal vincere tanto, mi sono ritrovato ad essere uno dei tanti, cosa che non potevo accettare. Sai, la depressione non è come una frattura, non bastano due mesi per uscirne e anche se hai la fortuna di avere attorno persone che ti vogliono bene e cercano di aiutarti non è semplice batterla. Non ho mai pensato di mollare tutto. Forse di mandare a quel paese qualcuno… La bici è la mia vita, la mia passione, il mio lavoro, quella che mi ha dato la casa dove vivo. Io so quello che sono, ormai era un paio d’anni che non vedevo l’arrivo di gare importanti. Alla partenza da Cesana Torinese speravo di prendere la fuga. In realtà ne parlavo da prima del via di Napoli con mio papà che volevo prendere la “fugaccia” e portare a casa una “tappaccia”. È stata una giornata indimenticabile. Non ho mai provato un’emozione simile in bici. Gli ultimi chilometri stavo piangendo dentro. Sapevo che potevo vincere perché ero tornano in me». La data di inizio della tua seconda carriera però è stata mercoledì 22 maggio 2013. «Sì, l’espressione usata da Paolo Condò de La Gazzetta dello Sport è perfetta. Ho tagliato il traguardo della diciassettesima tappa, Caravaggio-Vicenza, in solitaria, a braccia alzate, tra due ali di folla che urlava il mio nome (alle sue spalle lo sprint del gruppo selezionato è stato vinto da Navardauskas su Mezgec, ndr). È stata la mia prima gara fatta con la coscienza e la grinta di una volta. Sono scattato a 17 chilometri dal traguardo, ho ripreso Rubiano e Di Luca, li ho staccati, ho scollinato e fatto sia la discesa che la pianura a tutta. Il tutto pedalando e ridendo perchè sapevo che era fatta, ero di nuovo io. Nell’ultimo chilometro c’era tanta tanta gente. È stata davvero una vittoria da brividi, era come se sognassi. Mentre tagliavo il traguardo pensavo alla foto che sarebbe uscita il giorno successivo sui giornali, quella che ho già appeso a casa. La mia faccia in quello scatto dice tutto». A proposito, in casa Visconti sai cosa succedeva il quel momento? «La mia famiglia probabilmente piangeva e rideva quanto me: mamma Rosy, papà Antonino, mia sorella Ursula, mia moglie Katy e seppur siano piccoli anche i miei bimbi, Noemi che ha 4 mesi e Thomas che compirà 4 anni a novembre. I piccoli sono il mio ossigeno. Anche loro erano davanti alla tv e vedendomi inquadrato in più riprese nel finale di tappa Thomas ha iniziato a dire: “Babbo!”, “Babbo!”, “Babbo!” ogni volta che sullo schermo passava la maglia blu della Movistar e ancora “Dai babbo vinci, vai forte come me” perché ha già la bici da corsa e dopo un altro paio di “Babbo!”, “Babbo!”, alla fine, meravigliato e felice ha concluso: “ma quanti Babbo!”». Cos’è cambiato, Giovanni, rispetto a un anno fa? «La testa, se non funziona come dovrebbe, può fare molto male ma può anche trasformarti in senso positivo. Negli ultimi dodici mesi le gambe mi chiedevano di allenarsi ma la testa non le voleva far girare. Dal Giro sono tornato ad avere la mentalità di una volta. La vittoria sul Galibier mi ha dato forza, motivazione, spavalderia. A Vicenza ho fatto gli ultimi 15 chilometri a testa bassa, tranquillo, sereno di dare il massimo per cercare di ottenere il miglior risultato possibile. Ho ritrovato il contatto con la gente che dà i brividi, il mio ruolo in gruppo e il coraggio di provarci. Una nuova convinzione. L’ho detto appena tagliato il traguardo di Vicenza, neanche mi riconoscevo all’inizio. Sono come rinato, sono cambiato completamente e sono felicissimo che tanta gente a sua volta sia contenta che mi sono ritrovato». Che ruolo ha avuto la tua squadra in questo periodo difficile? «I miei successi al Giro sono frutto della mia voglia di confermare di essere tornato ai livelli che mi competono, ma in buona parte anche del gruppo di cui faccio parte. Non a caso abbiamo vinto quattro tappe, oltre alle due mie, la crono di Saltara con Dowsett e la 16a tappa con arrivo a Ivrea con Intxausti. La squadra mi è stata vicina nel periodo più difficile della mia carriera ed Eusebio portandomi al Giro mi ha salvato. Fino alla settimana delle Ardenne non avevo la certezza che avrei preso parte alla corsa rosa, ma Unzué aveva capito che era la corsa che mi aveva affossato a dovermi riportare alla ribalta, e così è stato. Alla fine di questa stagione dovrebbe scadere il mio contratto con la Movistar, ma visto quanto di buono abbiamo combinato alla corsa rosa il matrimonio potrebbe continuare felice per un altro anno o due. Vedremo nei prossimi mesi». Al Giro abbiamo visto il Visconti più forte di sempre da quando sei nella massima categoria? «Forse a Vicenza sì, ma anche quando ho vinto i tre titoli di Campione Italiano (uno da Under 23 e due nella massima categoria, 2007 e 2010) non andavo piano! Il Tricolore è una corsa sempre lunga e combattuta, assomiglia un po’ alle classiche... Per il futuro spero di ritornare a far bene nelle corse di un giorno e di poter puntare a quelle più prestigiose. Sono sempre stato definito un corridore da Classiche, ma nel mio curriculum non ce n’è ancora neanche mezza. Vorrei sopperire a questa mancanza (sorride, ndr). Per quanto riguarda le corse a tappe non escludo un giorno di poter provare a far classifica, anche se sono sempre stato un cacciatore di tappe. In fondo ho 30 anni e mi sento ancora giovanissimo». Bettini, CT della nazionale e tuo capitano nel 2007 e 2008 alla Quick Step, ha dichiarato: Giovanni è tornato e ne sono felice. Il Mondiale non è il Giro d’Italia, non è una tappa del Giro e non è una classica. Ed è a settembre. Adesso che si è ritrovato voglio che non si perda più. L’Italia ha bisogno anche di lui. «Le parole di Paolo mi hanno fatto molto piacere, anche perchè al Giro ho corso un po’ come lui. Per quanto riguarda la sfida iridata in Toscana è chiaro che ora il sottoscritto ci pensi. Io vado bene con il caldo, la mia stagione inizia con l’Italiano e le classiche estive, compreso l’appuntamento iridato. A proposito del campionato nazionale mi hanno fatto notare che nessuno nel dopoguerra ha mai vinto tre titoli tra i professionisti. Se non scoppia una guerra da qui al 22 giugno, in Trentino proverò a conquistare questo record (scherza, ndr)». L’Italia che pedala ha ritrovato un corridore che si era perso ma anche uno dei pochi che ha avuto la forza di chiedere scusa. Il riferimento è alla squalifica di tre mesi ricevuta per la frequentazione del dottor Ferrari. «Non vorrei più parlare di questa faccenda che mi ha insegnato che posso farcela con i miei mezzi. Ho sbagliato, pagato e ho cambiato pagina. L’esperienza che ho vissuto mi ha fatto capire come non sia giusto trovare altrove la soluzione dei tuoi guai. La strada migliore da prendere è già dentro di noi, basta cercarla». Sì, aveva proprio ragione Eusebio.
una domanda che, presumo, sia lecita:"Non vorrei più parlare di questa faccenda...", perchè non ne vuole più parlare?!? Lei sostiene di aver sbagliato, come da Sua risposta, Le posso, allora domandare:
1) in che cosa consistevano gli allenamenti o le frequentazioni con il Dott. Ferrari?
2) quante volte ha avuto modo di parlare e visitare il famoso camper del Dott. Ferrari, se ci sono stati incontri in tal senso, e sopratutto per quali finalità?
3) il Dott. Ferrari, all'epoca dei fatti, era il Suo personale preparatore atletico/sportivo?
4) Ha mai incontrato il Dott. Ferrari unitamente ad altri ciclisti professionisti o di categorie agonistiche inferiori, quali under 23 o elitè?
5)"posso farcela con i miei mezzi" mi spiega questa Sua espressione strapolata dalla intervista di cui sopra?
Poi le domande sarebbero ancora tante altre, ma già avere una risposta a queste, sarebbe manna dal Cielo!!!!
Complimenti alla giornalista De Maio,però, un consiglio non giornalistico, la prossima volta, una qualche domanda più incalzante sarebbe gradita, a costo di ricevere un "no comment"!!!
Francesco Conti-Jesi (AN).
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