FRANCO BITOSSI, CUORE MATTO AI TEMPI DEL COVID-19

INTERVISTA | 22/04/2020 | 08:05
di Stefano Fiori

Il primo di settembre Franco Bitossi, l'amatissimo Cuore Matto del ciclismo, taglierà il ragguardevole traguardo degli 80 anni. Bambino durante l'assai poco felice periodo della seconda guerra mondiale, poi scolaro diligente e, a 15 anni, dopo avere conosciuto il duro lavoro nei campi quale prerogativa familiare, diventa operaio in una fabbrica di ceramiche a Montelupo Fiorentino. Di lì a poco esplode però l'amore verso la bici, complice il cugino Riccardo. Prime gare, prime vittorie e primo disturbo da Cuore Matto ad agosto del 1958, durante una gara di Allievi a Settignano: l'avvisaglia di un calvario che avrebbe avuto fine soltanto una decina d'anni dopo, grazie al dottor Giovanni Falai. Ma il volo di Franco da Camaioni di Carmignano è ormai iniziato e lo porta a vincere in 18 anni di professionismo 171 gare, quarto assoluto nella graduatoria italiana dei plurivittoriosi di tutti i tempi. Un grande Campione a livello internazionale, vincitore di Classiche come il Giro di Lombardia, il Campionato di Zurigo, dei Giri di Catalogna, di Svizzera, della Tirreno-Adriatico, di 21 tappe al Giro d'Italia e di 4 al Tour de France. Il coronavirus ha “sigillato” Franco Bitossi nella sua abitazione di Empoli, insieme alla moglie ma lui, com'è nel suo carattere, l'ha presa con filosofia: «Bisogna avere pazienza, come quando impostavo uno sprint contro avversari pericolosi. Siamo di fronte a un virus che ci ha colti di sorpresa, non avrei mai creduto che potesse combinare tanti guai in così poco tempo, a livello sanitario ed economico. Ora non ci resta che sperare in un vaccino, mi fido dei medici e dei ricercatori, non vedo altre vie d'uscita».


Come trascorri le giornate?
«Il momento più elettrizzante è quando esco a fare la spesa. Se fossimo stati nella nostra casa di Lido di Camaiore la noia sarebbe stata minore, magari avrei potuto inforcare la bici da passeggio che uso quando sono al mare ed è ormai l'unico tipo di bici che posso utilizzare. Qui ad Empoli mi sento con amici e colleghi e spesso guardo alla TV delle gare ciclistiche del passato».


Ti capita di rivedere anche il maledetto mondiale di Gap 1972, che ti vide soccombere per un soffio sulla linea del traguardo?”
«Sì, c'è anche Gap. Lungo quel rettilineo interminabile in leggera salita commisi vari errori. Il primo fu di mettere un rapporto più agile, salvo poi cambiarlo di nuovo e perdere dei secondi preziosi. L'altro fu di passare dalla parte destra della strada, dove ero più riparato dal vento anche grazie alla tribuna del pubblico e alle auto del seguito, alla sinistra, dove avevo il vento proprio in faccia. Poi cominciai a voltarmi perché alcune macchine dell'organizzazione alle mie spalle mi coprivano la visuale, mentre io volevo vedere dove fossero gli inseguitori. Quando li scorsi, con Merckx che guidava la rabbiosa rimonta, le gambe diventarono molli e smisi quasi di pedalare, preso dal panico. Poi è purtroppo finita com'è finita, Basso certo non si comportò da perfetto compagno di squadra e Merckx sbagliò tattica, con quella terrificante “tirata” suicida risultata inutile, anche perché non salì nemmeno sul podio. Resta negli annali quel bruciante secondo posto che mi fece piangere ma che in seguito, come lo dimostrarono tanti sportivi di tutto il mondo con il loro affetto nei miei confronti, diventò  una vera e propria vittoria morale, della quale sono tuttora molto orgoglioso».

18 anni di professionismo, momenti da ricordare?
«Sembrerà inverosimile ma ricordo sempre con enorme piacere la prima vittoria da Pro, a Termoli, in una semitappa della Tre Giorni del Sud. Poi attraversai tre anni difficili anche a causa del Cuore Matto, ma al Giro d'Italia 1964 iniziò la mia risalita, con 4 vittorie di tappa, tra cui quella memorabile di San Pellegrino Terme e due secondi posti colti nell'arco di soli sei giorni, che mi fecero conoscere a tutti gli addetti ai lavori. Una curiosità: debuttai al Giro dell'Emilia a Bologna il 4 ottobre 1961, piazzandomi 14° e sempre l'Emilia – che vinsi nel 1970 e 1973 - è stata la mia ultima gara nell'ottobre del 1978».

Amici veri che ti sei fatto nel mondo del ciclismo?
«Ne ho tanti, ma cito Chiarini, Spinelli, Poggiali, Mugnaini e Zilioli, mentre tra gli stranieri posso vantare un'amicizia di lunga data con Eddy Merckx. Con Dancelli invece non sono mai andato d'accordo: avevamo caratteristiche troppo simili e lui spesso faceva il furbo».

Con Enzo Ricciarini esiste un rapporto speciale?
«Sì. Con lui sono andato spesso a caccia, a seguire importanti corse ciclistiche, abbiamo lavorato nei campi per produrre olio e vino, siamo stati diesse in varie squadre come la Essebi-Antico Masetto, insomma, ne abbiamo combinate di tutti i colori. In questi giorni ogni tanto mi telefona e urla: ”Ahò, ma sei sempre vivo?”».

Da qualche anno ti eri dato al gioco delle bocce, con buoni risultati: e ora?
«Tutto fermo, l'ultimo match l'ho disputato a Sesto Fiorentino, ma dal primo marzo, dopo la gara di Pieve a Nievole, il virus ci ha costretti allo stop».

Cosa pensi della possibile organizzazione dei tre grandi Giri a tappe da fine agosto in poi?
“«Non mi pronuncio, mi sembra la soluzione della disperazione».

C'è  stata, invece, una vera passione di Franco Bitossi oltre al ciclismo?
“«Da corridore ho vinto tanto ma ho anche sofferto molto. Poi ho fatto, senza troppa convinzione, il diesse nella Essebi Antico Masetto, nella Coalca e nella Maltinti, ma a me e lo confesso, è sempre piaciuto di più stare nei campi, tra uliveti e vigneti, finché ho potuto farlo nella mia tenuta di Capraia Fiorentina e dintorni. Ora mi reco ogni tanto a Montalcino, per dare una mano e dei consigli al mio amico Paolo Bianchini dell'Azienda Ciacci Piccolomini d'Aragona. Io seguo e curo gli ulivi, mentre Paolo produce un Brunello davvero eccezionale, noto in tutto il mondo».

C'è qualche ciclista attuale che ti piace?
«Direi Alberto Bettiol, ha vinto un Fiandre strepitoso, ma ora deve dare un degno seguito a questa impresa. Anch'io andai vicino a vincere un Fiandre nel 1969. Volavo, quel giorno, staccai addirittura Merckx, ma il troppo tatticismo degli avversari mi consentì di ottenere soltanto il quarto posto finale, che risultò assai stretto se rapportato all'ottima prestazione che avevo fornito».

Altri ciclisti da ricordare?
«Roger De Valeminck, uno dei più grandi cacciatori di Classiche di tutti i tempi».

Come valuti il periodo trascorso alla Filotex?
«Memorabile, società e squadra come una famiglia, compagni di squadra come fratelli. Si vinse tanto e bene, la Filotex ha contraddistinto una delle epoche più felici del ciclismo italiano, sono orgoglioso e onorato di averne fatto parte».

Te ne andasti però all'arrivo di Moser, nel 1973: ci fu una vera rivalità tra di voi?
«I media esagerarono un po', ma passando alla Sammontana e poi alla Scic totalizzai in due stagioni 35 vittorie, dimostrando di non essere affatto finito a 34 anni di età, come forse qualcuno credeva o sperava».

Un'ultima cosa: il trevigiano Luciano Rui, manager del team Zalf Fior dilettantistico e il bresciano Pierino Gavazzi, due ciclisti che tu ben conosci, hanno contratto il coronavirus ma sono ormai in via di guarigione. Che effetto ti ha fatto questa bella notizia?
«Provo una grande gioia, li vorrei abbracciare entrambi. Speriamo che sia un ulteriore segnale che la battaglia contro questo terribile virus che ha sconvolto le nostre vite possa essere vinta».

 

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