L'ORA DEL PASTO. IL VELOCE PELIZZONI

STORIA | 19/12/2019 | 07:31
di Marco Pastonesi

Cominciò a correre quando, oggi, spesso si smette. Aveva diciannove anni, un’Atala da corsa acquistata con i propri soldi e una voglia così grande da conquistare, se non il mondo, almeno quella corsa: un circuito a Pieve d’Olmi, La Piéev, nel Cremonese. “Andai in fuga alla partenza, doppiai il gruppo, nel gruppo c’era anche Loris Campana, olimpionico nell’inseguimento a squadre, vinsi”. E diventò un corridore.


Renato Pelizzoni da Drizzona, una frazione di Piadena, nel Casalasco: “Una terra piatta come se fosse una pista”. Terzo di tre figli: “Comunque già sul podio”. Terza media, poi al lavoro: “In un’officina meccanica specializzata in pompe idrauliche”. Fino alla folgorazione per il ciclismo: “Andai a vedere qualche corsa, me ne appassionai”. L’iscrizione, il tesseramento, l’inizio: “Nel Pedale Soresinese. C’era anche Addo Kazianka, futuro gregario di Fausto Coppi. Nessuno mi conosceva”. Poi al Club ciclistico Cremonese 1891, nell’Europhon e nella Faema: “Cominciai tardi, ma da dilettante vinsi molto. Da velocista, in volata, ma anche per distacco, come nel Trofeo Mauro Pizzoli e, la domenica successiva, nella Fausto Coppi, in una fuga a due”.


La svolta con il servizio militare: “A Roma, alla Cecchignola, nel 1960. Nella compagnia atleti c’era un fenomeno: Romeo Venturelli. Diventammo amici, anzi, amicissimi. Meo era il più forte, ma anche il più matto, il numero uno in tutti i campi. Avremmo corso insieme, io e Meo, nelle stesse squadre, prima l’Ignis, poi la Bianchi. Quella volta al Giro del Levante, in Spagna: a Barcellona, cena, quattro passi per aiutare la digestione e una camomilla per dormire meglio, entriamo in un bar, non è un bar ma un night, ci sediamo accanto a tre donne, per non sembrare stupidi diamo loro un appuntamento, poi torniamo in albergo, io mi metto a letto, Meo si fa la barba, ‘che cosa fai?’, ‘vado all’appuntamento’. Il giorno dopo trasferimento, in bici, prima della corsa, da Barcellona a Valencia, 230-240 chilometri, Meo si stacca subito, arriva di sera, da solo, poi sparisce, salta tutta la corsa, lo ritroviamo solo il giorno del ritorno a casa, all’aeroporto, e mai avrebbe rivelato dove e con chi era stato”.

Proprio al Giro del Levante, Pelizzoni esordì nel professionismo, nel 1963: “Un secondo, un terzo, un quarto posto. Sfiorai la vittoria, la accarezzai, ma non riuscii a conquistarla, anche perché nel momento decisivo venni afferrato alla maglia da uno spagnolo, José Segu”. Ci riuscì subito dopo, sempre in Spagna: “In un circuito a Barcellona, in volata”. Sarebbe rimasta l’unica vittoria della sua carriera: “Però settimo, e primo degli italiani, nella Milano-Sanremo del 1964, primo Simpson, secondo Poulidor, terzo Bocklant, quarto Van Looy che vinse la volata del gruppo davanti a Van Coningsloo, Graczyk e me. Però terzo nella prima tappa del Giro d’Italia del 1964, dietro ad Adorni e ad Altig, ma davanti a Baldini e Dancelli. Però poi anche sesto nella nona tappa, quarto nella quattordicesima e secondo nella sedicesima dietro a Bitossi, si arrivava a Livorno, fuga a quattro, Cuore Matto mi piantò sull’ultima salita, gli arrivai a cento metri, che peccato”. Cominciò tardi e smise presto, Pelizzoni: “Avevo problemi fisici e familiari, non me la sentivo più, diventai un agricoltore, meloni, li portavo da vendere all’ortomercato di Milano”.

Pelizzoni è un pozzo di ricordi: “Fausto Coppi? Lo vidi in un circuito, credo a Viadana. Gino Bartali? Un fanfarone. Fiorenzo Magni? Mi chiese di andare alla Molteni, andai a Monza, c’era anche Giorgio Albani, gli confessai che ero già compromesso con l’Ignis, e Magni disse ‘Borghi non si tocca’. Giovanni Borghi? L’uomo più generoso che abbia mai conosciuto, portava Antonio Maspes e Duilio Loi a giocare al casinò, e quando vinceva, a incassare erano loro, e quando perdeva, a sganciare era lui, poi però Maspes e Loi presero il vizio del gioco. Maspes? Un giorno si giocava a bocce, a Comerio, nel ritiro dell’Ignis, Borghi disse a Maspes che, se avesse vinto il campionato del mondo, la foto di lui in maglia iridata sarebbe stata una bella pubblicità, Maspes gli rispose che, per fare una bella pubblicità, ci sarebbe voluta una foto di lui su una Lamborghini. Il giorno dopo Maspes aveva una Lamborghini davanti all’albergo. Il velocista più forte? Né Marino Basso né Dino Zandegù, ma Raffaele Marcoli, di Turbigo, che aveva un turbo nel suo motore”. E cotte? “Tante. Avevo uno spirito battagliero, e così attaccavo. Risultato: spendevo tanto, mangiavo poco, risparmiavo niente, e scoppiavo. Da professionista, e prima anche da dilettante. Un Giro dell’Abruzzo: quattro vittorie di tappa e una cotta, magistrale, di un quarto d’ora, in salita”.

 

 

 

 

 

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COMMENTI
Marcoli
19 dicembre 2019 12:10 azzurrotenebra
Bella intervista, interessante come tutto quello che scrive Marco Pastonesi. Solo un piccolo appunto, certo dovuto ad un lapsus: Il povero Marcoli non si chiamava Renato, bensì Raffaele....

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