Michael Rogers, l'australiano che sogna in giallo

| 05/07/2007 | 00:00
Michael Rogers è ormai di casa in Toscana e, in particolare, nella provincia di Pistoia. Proprio da quelle parti “Dodger”(è il soprannome del simpatico ed estroverso ventisettenne campione di Barhan, dal 2007 residente a Montecarlo nel principato di Monaco, insieme alla graziosa moglie Alessia, varesina) ha conosciuto il “ciclismo dei duri”, come lui lo definì appropriatamente (in inglese si dice “tough racing”) appena arrivato in Italia per indossare, a soli diciassette anni, la maglia rossa del team Vangi-Montemurlo. E il poderoso ciclista aussie non si sottrasse al temibile confronto, anzi: in 40 giorni esatti, dal 7 agosto a metà settembre 1997, si impose in 9 gare, tra cui il GP di Vertova (BG) internazionale, la premondiale a cronometro di Verona/Illasi e il Memorial Gastone Nencini in salita, al Passo della Futa (una gara che vinse anche Marco Pantani); pochi giorni dopo, al mondiale Juniores a cronometro di San Sebastian, in Spagna, Mick fallì l’assalto alla la maglia iridata per un solo secondo - vinse infatti la “meteora” tedesca Thorsten Hiekmann - ma, da allora, di rivincite se ne è prese parecchie: tre campionati del mondo nella crono professionisti (Hamilton 2003, Verona/ 2004 e Madrid 2005), le vittorie assolute nel Tour Down Under, nella Route du Sud, nel GP de Beauce, nel Giro del Belgio, nel Giro di Germania e in altre 8 gare da quando, nel 2001, è passato professionista con la corazzata Mapei, su preciso interessamento di quel talent scout riconosciuto che è Valdemaro Bartolozzi. Abbiamo incontrato Rogers a Pistoia, dove ha trascorso un breve periodo di relax attivo al termine della Volta a Catalunya ed ha fatto visita ad alcuni amici di vecchia data dell’epoca Mapei, come Franco Ballerini, Andrea Tafi, Luca Scinto, Elio Aggiano e a due suoi connazionali che vivono ormai stabilmente nel pistoiese: Brett Lancaster e Graeme Brown. L’asso australiano ha debuttato a metà febbraio nel Tour di California avvertendo subito buone sensazioni (si è piazzato 7°nella classifica finale) e successivamente ha brillato nella Settimana di Coppi e Bartali (4°in classifica e ottimo sulle salite); un paio di problemi di carattere fisico e meccanico e il tempo avverso hanno inficiato le sue prestazioni alla Vuelta al Pais Vasco e al Giro di Romandia, ma si è poi subito ripreso con il buon secondo posto finale colto nel Giro di Catalogna dove le salite non mancavano di certo, se consideriamo la presenza di un “tappone” pirenaico con arrivo ad Andorra. Michael adesso è pronto ad affrontare il Tour de France con malcelato ottimismo «Di mostri in giro, almeno quest’anno, non ne ho visti…» ci ha detto ed è consapevole delle responsabilità che gli derivano dall’essere stato designato da Bob Stapleton come il capitano unico della T-Mobile nelle grandi gare a tappe: «Le responsabilità non mi spaventano, mi sento forte e più maturo, rispetto al passato. Nel 2006 avrei potuto ottenere un miglior piazzamento del 9° posto finale al Tour de France se non avessi lasciato per strada molti minuti, dovendo necessariamente aiutare Andreas Kloden; adesso la situazione è chiara e ritengo di essere al massimo della condizione per il mio principale obiettivo stagionale, che logicamente resta il Tour». Ma perché solo il Tour de France e non anche un quarto titolo iridato della crono? «Le cronometro mi hanno stancato, dopo la delusione del 2006; a Salisburgo non c’ero con la testa, mi sentivo demotivato nel puntare a una vittoria che non avrebbe aggiunto nulla al mio palmarès. Vincere un Tour, la massima gara ciclistica mondiale, quella maglia gialla che fa sognare ad occhi aperti i giovani ciclisti australiani, mi farebbe invece entrare nella storia dello sport per sempre; nel mio Paese il Tour è uno degli eventi sportivi più seguiti in assoluto, ad ogni livello…Insomma, non c’è proprio paragone con il mondiale a cronometro». Ci puoi ricordare il tuo programma stagionale? «Ho iniziato il 2007 con il Giro della California, al quale hanno fatto seguito Milano-Sanremo, Settimana di Coppi e Bartali e Vuelta al Pais Vasco; tra le classiche franco-belghe ho partecipato senza infamia e senza lode a Freccia Vallone, Liegi-Bastogne-Liegi e Amstel Gold Race ; successivamente ho iniziato la preparazione specifica per il Tour: Giro di Romandia, Vuelta a Catalunya, uno stage nei Pirenei con un poco di riposo e quindi il Giro di Svizzera, per rifinire la mia condizione atletica. Nel corso del 2007 non ho ancora vinto, ma ho totalizzato ben 16 piazzamenti nei primi 10». Perché niente Giro d’Italia, dal quale dovesti ritirarti nel 2006 a causa di una brutta infezione al dente del giudizio? «Il Giro non figurava nei miei programmi, anche se quella cronosquadre iniziale e una prima settimana senza salite tremende sarebbero state un menu invitante… Onore comunque a un grande Di Luca e a giovani interessanti come Riccò e Nibali». E il tuo finale di stagione, come sarà? «Niente mondiale della cronometro in Germania, salvo cataclismi e invece sì alla Vuelta di Spagna, alla quale parteciperò per acquisire esperienza, senza puntare alla classifica generale. Disputerò la Vuelta soprattutto per preparare il mondiale su strada di Stoccarda, che figura nel mio programma stagionale: il percorso non è così facile come si diceva qualche mese fa…». Quindi sei fiducioso, ma quali potrebbero essere i tuoi avversari più ostici per la conquista della maglia gialla? «I nomi sono i soliti: da Vinokourov, a Sastre, a Leipheimer, Valverde e non sottovaluterei nemmeno un Popovych che mi sembra tornato su discreti livelli; cosa dire poi di Cadel Evans, che sono in troppi a considerare soltanto come un outsider: ma lui va forte in salita e a cronometro, due requisiti che da sempre appartengono ai vincitori del Tour e nel 2006 si è piazzato quarto assoluto, un risultato significativo». Si può parlare di un nuovo corso alla T-Mobile, dopo l’allontanamento dei medici implicati nella Operacion Puerto e dei vari Ullrich, Pevenage, Godefroot e Ludwig? «Sì, certamente c’è aria nuova, l’ambiente è molto professionale e stimolante; finalmente non esistono più dei clan o dei privilegiati, ma soltanto degli amici e dei colleghi che si rispettano». Nella tua squadra hai ritrovato Lorenzo Bernucci, già tuo compagno da Juniores in Toscana, nella Vangi-Montemurlo: può essere lui la punta della T-Mobile in alcune Classiche estive ed autunnali? «Fortunatamente Lorenzo ha superato i problemi fisici del 2006 e adesso è in condizioni più che accettabili, con la determinazione giusta per poter ottenere quei risultati che sono alla sua portata, soprattutto nelle gare in linea. Anch’io faccio il tifo per lui». In Italia puoi vantare addirittura due Fans Club, uno a Gorla Minore (Varese) creato da Fabrizio e Stefania Sansottera e l’altro a Pistoia, fondato dai tuoi sostenitori del periodo “Vangi/Vellutex” (dal 1997 al 2000, ndr). Gli iscritti sono in totale circa 200: a cosa devi questa crescente popolarità in Italia? «Ormai mi sento uno di voi, ho sposato una ragazza italiana, Alessia, che ad ottobre mi regalerà i nostri primi due figli (e sono due gemelli! ndr), spesso torno ad allenarmi in Toscana ed ho una casa a Gorla Minore. Ormai in Australia trascorro soltanto un mese e mezzo ogni anno, da metà novembre ai primi di gennaio. Montecarlo e l’Italia sono la mia casa e perciò i miei tifosi più “caldi” sono qui, com’è logico che sia». E tra i ciclisti, chi sono i tuoi migliori amici? «Inizierei con Paolo Bettini; la sua vittoria a Salisburgo mi ha procurato un enorme piacere e quando vengo in Toscana mi alleno spesso con lui, anche se su questo… argomento siamo agli antipodi! Io non scenderei mai di bici, in gara e negli allenamenti, mentre Paolo non ci salirebbe mai, limitatamente però alle sedute di allenamento… Poi intrattengo tuttora ottimi rapporti anche con Franco Ballerini e Andrea Tafi, così come con Fabrizio Fabbri e Luca Scinto. Tra gli australiani Scott Davis e Gene Bates sono per me come dei fratelli, ma anche con Brett Lancaster mi trovo benissimo». Il ciclismo australiano continua a sfornare un talento dopo l’altro: ora sembra essere il turno di Matthew Goss, Matthew Lloyd, William Walker, Simon Clarke e Wesley Sulzberger: a cosa è dovuta questa invasione inarrestabile? «A differenza di altri giovani, come ad esempio quelli dei Paesi del blocco dell’ex-Europa dell’Est, noi pratichiamo il ciclismo principalmente per passione; certo, i guadagni sono importanti, ma non sono tutto. Bisogna avere una grande vocazione per affrontare i sacrifici che questo sport impone quotidianamente. Comunque mi sembra che ora si stia un po’ esagerando, poiché ci sono diversi miei connazionali poco più che ventenni che passano professionisti con grandi squadre e con troppe responsabilità. Io ho avuto la fortuna di poter crescere senza stress eccessivi nella formazione giovanile della Mapei e ciò è stato essenziale per il mio futuro. L’idea che ebbe allora patron Giorgio Squinzi fu innovativa e si è rivelata, negli anni successivi, giusta e vincente». Sei reduce da un 2006 contraddistinto da tre vittorie, nella terza tappa del Regio Tour e nei criterium australiani di Canberra e Goulburn e da un 2007 nel quale non hai ancora assaporato il gusto della vittoria: non è un po’ poco per uno che vuole puntare a vincere il Tour de France? «Comunque, di piazzamenti ne ho ottenuti un’infinità, oltre al 9° posto del Tour. Diciamo che, svolgendo una preparazione speciale per le cronometro, nelle gare su strada non sempre riuscivo ad essere brillante e incisivo. Ora però ho detto basta: per un paio d’anni niente crono e vedremo cosa valgo veramente nelle grandi corse a tappe, cioè quelle gare che sento essere più adatte alle mie caratteristiche tecniche e fisiche». Una tua riflessione sul Pro Tour? «L’idea è stata indubbiamente valida ma le cose da rivedere non mancano; bisogna che tra l’UCI e le società organizzatrici delle grandi gare a tappe si apra finalmente un dialogo franco e costruttivo, anche perché ogni spaccatura farebbe soltanto del male al mondo del ciclismo. I problemi nati dopo gli ultimi, clamorosi sviluppi della Operacion Puerto sono esemplificativi della situazione errata che si è ormai venuta a creare». Stefano Fiori
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