| 01/07/2007 | 00:00 Ho letto, con amarezza ed incredulità, le gravi affermazioni di Joerg
Jaksche e il dover replicare a questi attacchi calunniosi, figli di un
disegno perverso che ancora oggi mi sfugge, mi ferisce come uomo prima
ancora che come team manager.
Jaksche è stato un mio corridore circa dieci anni fa, ma il ricordo di lui, nella mia mente, è tutt'altro che nitido. Era un neo-professionista che aveva buone credenziali, ma che – almeno nella mia squadra - mai mantenne realmente le promesse. I miei rapporti con lui sono sempre stati sporadici: il primo anno era militare, il secondo l'ho avuto a disposizione con maggiore continuità, ma il fatto che lui non parlasse italiano e che il mio tedesco, all'epoca non fosse meglio di quello di oggi, praticamente nullo, ha sempre rappresentato, tra di noi, un ostacolo non trascurabile. Già
questo elemento potrebbe spiegare qualcosa, ma relegare un'accusa così grave nell'alveo delle incomprensioni linguistiche, mi sembrerebbe francamente sconfortante e demenziale.
L'accusa che mi muove, oltrechè falsa e gravissima, ondeggia sulla soglia dell'inverosimile. Chi mi conosce - e mi riferisco a quelle centinaia di corridori che, nel corso della mia lunga carriera, ho avuto alle mie dipendenze- sa perfettamente che non è mio costume interferire, per nessuna ragione, nelle questioni di ordine medico. E non è una scelta di principio, ma una necessità effettiva, visto che la mia preparazione, in campo farmaceutico, è ovviamente nulla. Anche se dovessi soltanto valutare l'uso di qualche medicinale (chiaramente legale), per un mio atleta, il mio interlocutore naturale sarebbe sempre e comunque il medico della squadra,non certo il corridore.
Detto questo, non so davvero per quale ragione Jaksche, dieci anni dopo, tiri fuori queste menzogne. Temo sia la strategia disperata del corridore che non ha più nulla da perdere e che, per alleggerire la sua grave posizione giudiziaria, punta a coinvolgere il maggior numero di persone, sdoganando la logica del “così fan tutti" e scegliendo proditoriamente di gettare fango su personaggi noti, per togliersi di dosso la gogna pubblica e far virare l'attenzione dei media verso bersagli più appetibili. E' un gioco al massacro, che non produce né vinti né vincitori, un pugno di sabbia lanciato negli occhi di chi ha il dovere di giudicare fatti e circostanze provate e che, invece, si trova depistato da tesi fantasiose e destituite di ogni fondamento. A supporto delle deliranti farneticazioni del signor Jaksche, guarda caso, non c'è uno straccio di prova né un testimone credibile. Eppure oggi mi trovo nella deprimente condizione di dovermi difendere, costretto a provare la mia innocenza e a tutelare la mia immagine
di professionista. E' la china amara che sta prendendo il ciclismo, ostaggio dei kamikaze della domenica che, con le spalle al muro e la fedina ormai irrimediabilmente imbrattata, nel loro ultimo rantolo disperato, biascicano pietosi: “Muoia Sansone con tutti i filistei".
Gianluigi Stanga
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