WEGELIUS, CITTADINO DEL MONDO

PROFESSIONISTI | 11/10/2017 | 07:59
Al Tour non è mai facile in­contrarsi, anche al mattino. Anche al villaggio di partenza. Devono coincidere tante cose, ad incominciare dalla disponibilità e il tempo: tuo e quello degli altri. Tuo, perché generalmente tra il raggiungere il villaggio dall’albergo nel quale sei ci vuole almeno un’ora e mez­za di media, tempo di restare “surplace” quaranta minuti circa, ma se in quel lasso di tempo la persona che vuoi ve­dere o incontrare è impegnata in altre cose, sei fritto.

Poi però il Tour ti permette anche di trovare il tempo quando meno te lo aspetti, come alla vigilia della crono di Marsiglia: quindi nei tempi di recupero. Trovo l’albergo a Vittrons, hotel Com­fort, dove alloggia anche la Cannondale Drapac: bingo. Sono vicino a Marsiglia, la sistemazione è onorevole, ma quel che più conta è che posso fare due chiacchiere in santa pace e in tutta tranquillità con un amico che non vedo da un po’: Charly Wegelius. Davanti ad una bella birra (lui) e un bicchiere d’acqua io (so già che Gianni Mura mi man­derebbe cordialmente a quel pae­se), ci si può finalmente lasciare a qualche ricordo e considerazione. Dopo un ab­braccio sincero e due battute tra buo­ni amici, lo massacro di domande.

So bene che sei cittadino del mondo, ma dove sei di stanza?
«A Helsinki, in Finlandia. È dal 2011 che vivo lì, o meglio quella è la mia ba­se, dove vive il mio nucleo famigliare, do­ve mi attendono Camilla, mia moglie, e i miei due bimbi: Emil di 5 anni e Robin di 2. Sembra un posto fuori dal mondo, ma invece è molto più centrale di quanto voi pensiate. Se alle 8 prendo l’aereo per Londra, alle 9 sono sul po­sto, grazie anche all’ora di fuso. Il mio vantaggio è che anche quando sono lontano da casa, la mia famiglia gioca in casa. Io sono finlandese (di Espoo, Esbo in svedese), come mia moglie, e sapere che loro possono stare dove han­no dei legami forti è per me motivo di tranquillità».

Tu però sei cittadino del mondo.
«Questo sì, non sono tipo che si commuove davanti ad una bandiera, anche perché non saprei dirti bene a quale bandiera io corrisponda. Io sono di pas­saporto britannico, ho vissuto in Francia, Italia, Regno Unito, Svezia, Finlandia, Stati Uniti, parlo sei lingue, più un po’ di varesino: io sono parte del mondo e il mondo fa parte di me».

Ti manca l’Italia?
«Tantissimo».

Cosa ti manca?
«Gli italiani. Siete un popolo eccezionale, dal grande cuore. Voi siete l’accoglienza fatta persona, e mi spiace quando leggo sui vostri giornali che sareste un popolo razzista. È una sciocchezza sesquipedale, non è vero. Nessun popolo è accogliente come l’italiano. Solo che con l’immigrazione, da voi, stanno davvero esagerando. C’è un limite a tutto».

Anche a tua moglie manca l’Italia?
«Assolutamente sì. E spesso è lei a ricordarmi di come è stata accolta nel nostro Paese, e dico nostro di proposito, perché io un pezzo d’Italia ce l’ho davvero nel cuore. Correvo alla Mapei, mi ero da poco messo con questa ra­gazza che avevo conosciuto in Finlan­dia e che faceva la cavallerizza. Le dico di venire in Italia a Gorla Mi­no­re, dove avevo il mio appartamento. Pen­so, stiamo qualche giorno assieme in tranquillità, ma non ho fatto i conti con le corse. Difatti io penso di avere tre/quattro giorni di libertà, invece ven­go convocato per il Laigueglia: “Charly, manca uno, devi correre tu“.  Camilla è arrivata da un giorno, e io mi devo subito assentare. Penso tra me e me: mi so­no già giocato la fidanzata. Vado via due giorni, al mio ritorno la trovo al piano di sopra, in una famiglia del no­stro condominio, che gioca con i loro bimbi. Loro non sanno una parola di inglese, lei non sa una parola d’italiano, eppure avevano legato, erano riusciti a comunicare e a stare assieme. Mia mo­glie me lo ricorda sempre: come in Ita­lia non si sta da nessuna parte».

Cosa non ti manca dell’Italia?
«L’approssimazione. Ti racconto un epi­sodio che mi ha fatto riflettere. Fini­to il Giro d’Italia, perdo tutti i documenti: capita. In tre giorni ho rifatto tutto, spesa 44 euro: in Finlandia. Da voi comincerei a girare uffici su uffici, come un matto, per cercare solo di capire cosa fare. Questo è un aspetto di voi che proprio non sopporto, e ancora non capisco come facciate a sopportare tutto questo. L’approssima­zione, l’inefficienza proprio non la di­ge­risco».

Giro o Tour?
«Giro. È più piccolo, più vivibile, me­no mastodontico. Al Giro se non becchi il PPO (Punto Passaggio Obbli­gatorio, ndr) riesci a cavartela, perché ci sono gli italiani che ti aiutano, che ti danno una mano, che fanno il possibile per farti arrivare in quel punto ugualmente. In Francia, se sbagli non rientri più».

Quindi ami l’approssimazione…
«Per certe cose sì, in determinati casi lo dico anch’io: viva l’approssimazione. Ma da voi è troppo generalizzata, an­che dove non dovrebbe esserci».

Quando hai deciso di smettere di correre?
«Febbraio 2011: mi piaceva allenarmi, ma non ce la facevo più ad andare alle corse. Volevo iscrivermi a giurisprudenza, poi mi chiama Jonathan Vaughters, il mio team manager, e mi dice: “Che ne dici se resti con noi come diesse, potresti fare qualche corsa a giornata”. Ci pen­so, ci provo. Mi dico: “Tanto è un’esperienza che farò per poco”. Mi trovo al Giro, con Hesyedal che vince. Poi a settembre Peiper va via e io mi trovo a coordinare tutto. Non so nemmeno da dove incominciare, ma sono circondato da persone perbene, brave e molto di­sponibili: si fa squadra, sul serio, con grande rispetto e grande disponibilità. Sono ancora qui. Con loro».

Ti piace fare quello che fai?
«Ora posso dirti di sì».

Passiamo al Tour: ti saresti mai immaginato di fare secondo con Rigo Uran?
«Mai. Sapevo che avremmo fatto una buona corsa, ma non così. Sapevo che stava pedalando forte, perché l’avevo visto molto bene alla Route du Sud, ma Rigo ci ha lasciato tutti a bocca aperta».

Ti è piaciuto questo Tour?
«Dal punto di vista del percorso ricordava molto il Giro. Il fatto di avere avu­to subito una bella salita come La Plan­che des Belles Filles alla quinta tappa ci ha aiutato a dipanare subito la matassa. La tensione dei primi giorni si è un po­chino dissolta, perché si è fatta subito un po’ di chiarezza. E Rigo ha dato su­bito un segnale importante: c’era anche lui».

La squadra ha fatto quello che ha potuto.
«Vero, in pianura abbiamo lavorato tan­to, ma anche nelle tappe di montagna, come quella del Galibier, davanti ne avevo mandati quattro, per fare punto di appoggio, per aiutare Rigo qualora ce ne fosse stato bisogno nei successivi tratti di pianura. In salita la squadra serve se devi mettere alla frusta il gruppo, come ha fatto la Sky; gli altri potevano correre sulle ruote, come ha fatto Rigo».

Bettiol è stato l’uomo in più.
«È andato come una bestia. Il ragazzo ha talento e voglia. Se ci crede di­venterà qualcuno. Che tipo di corridore può diventare? È meno di Bal­le­rini e più di Bettini. E a crono non è fermo. Oggi nel ciclismo ci sono tanti buoni atleti, ma pochi corridori. Per corridori considero quelli che hanno visione, intelligenza di corsa, che san­no muoversi quando lo devono fare e limare quando è necessario farlo. Ec­co, Bet­tiol è un corridore».

La forza della Cannondale.
«La serenità».

La forza di Uran?
«La serenità, unita ad una grande esperienza e ad un ottimo motore».

Ha mai avuto una giornata storta?
«Mai. Lui poi ha avuto un grande van­taggio: quello di sapere come la­vo­ra, corre e ragiona la Sky (vi ha corso dal 2011 al 2013, ndr). Noi eravamo sereni, ma Rigo ancora di più. Sapevamo che chi aveva da perdere era la Sky, noi potevamo solo an­dare a rompere le uova nel paniere».

Cannondale, squadra americana con tan­ti italiani.
«Fabrizio Guidi, Davide Villella, Da­vi­de Formolo, Alberto Bettiol, Car­mi­ne Ma­gliaro, Luca Fattori e Stefano Dei Cas che sono i massaggiatori, Andrea Bi­sogno, autista del motorhome, ma anche Manuel Garate è un po’ italiano anche lui, visto che conosce bene la lingua di Dante. E se è per questo anche Taylor Phinney, che par­la italiano e ha vissuto per anni a Ma­rostica, ha nel suo cuore il nostro Belpaese. E lo ripeto: nostro».

Se è per questo, tra gli italiani dimentichi il più italiano di tutti: Rigoberto Uran.
«Vero, anche lui. Insomma, nel no­stro team le professionalità italiane non man­cano».

E da buoni “italiani”, fate di necessità virtù.
«Con orgoglio italico e mentalità ame­ricana: siamo un ottimo mix. Ab­biamo il budget più piccolo del World Tour, ma non ci sentiamo inferiori a nessuno: facciamo quello che è nelle nostre possibilità, e anche qualcosa di più. Come al Tour».

Ciclisticamente sotto quale bandiera sen­ti di stare?
«Italia».

Ma qual è il segreto per poter parlare sei lingue?
«Intanto sono sette perché so anche il varesino, detto questo non ho nessun me­rito: basta andare in giro per il mon­do sin da piccolino. Sono portato, ho preso da mamma Jame: lei ha sempre im­parato le lingue alla velocità del suo­no. Ma anche papà Christopher (cavaliere che rappresentò la Fin­landia ai Giochi Olimpici di Mo­sca nel 1980, ndr) non è da meno. Siamo una famiglia cosmopolita, e anche i miei bimbi stanno crescendo così».

A proposito di papà e mamma, tu hai anche un fratello.
«Sì, Edward, ha 43 anni, faceva il mas­saggiatore, ora fa il postino in Gran Bretagna».

Ti piace questo ciclismo?
«Molto poco. Troppo codificato, formattato, bloccato e prevedibile. Vor­rei un ciclismo più ruspante e improvvisato. Hai presente il Giro 2010, quello della fuga di L’Aquila, con Ar­royo che poi lotta fino alla fine per la maglia rosa? A me piace quella cosa lì. Il Tour è tanto, troppo, tutto. Trop­po condizionante, tutti concentrati solo per difendere un piazzamento, un ottavo posto o un decimo: è follia pura».

A chi ti senti di dire grazie?
«A tante persone, perché nella vita si fanno esperienze e tutti sono importanti. Quindi grazie alla mia famiglia, a Giorgio Squinzi, ad Aldo Sassi, alla Mapei tutta, all’Italia e agli italiani, a mia moglie, ai miei figli, a Jonathan Vaughters che mi ha voluto con sé e continua a volermi, ma ciclisticamente parlando devo dire grazie al Giro d’Italia e a Ryder Hesjedal. Da lì è partito davvero tutto. E sono ancora in Giro».

Pier Augusto Stagi
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