BETTIOL. «AL TOUR HO IMPARATO CHE...»

PROFESSIONISTI | 30/08/2017 | 07:03
«Come stai Bettiolo? Io, te lo dico, vado forte». «Mi sono preparato bene Rigo. Tu sei un campione, vai sempre forte, ma qui siamo al Tour...». Questa conversazione andata in scena in una stanza d’hotel a Düsseldorf tra Rigo­berto Uran e il compagno Alberto Bet­tiol, a pochi giorni dal suo debutto alla Grande Boucle, dimostra quanta fiducia c’era attorno alla possibilità che il colombiano della Cannondale Drapac salisse sul podio di Parigi tre settimane più tardi. «Siamo sinceri, ci credeva so­lo lui. Ma ci ha convinto tappa dopo tappa. Con la sua energia e serenità ha fatto dare anche a me e a tutta la squadra il 101%», ci racconta il 23enne to­scano in attesa del volo che lo riporterà in Italia, dopo una giornata da turista a Parigi che l’ha rimesso a nuovo.

Ti aspettavi di essere tra i migliori italiani e giovani in gara?
«Sinceramente non mi aspettavo di an­dare così forte al mio primo Tour, mi ero preparato bene, ma ho superato le mie stesse aspettative. Il giorno in cui Charly (il ds Wegelius, ndr) mi ha detto che mi avrebbe portato in Fran­cia mi sono un po’ impaurito, il Tour è una cosa grossa, temevo di non essere pronto. Per due mesi ho fatto vita da nomade, tra una gara e l’altra andavo sempre in altura, senza mai passare da casa, mi sono preparato al mille per mil­le, sono contento di essere riuscito a dimostrarmi all’altezza centrando la fuga, buttandomi in volata nella terza tappa e aiutando Rigo. Sono orgoglioso di averlo portato a termine. Tutto il team ha raccolto più del previsto: ab­biamo vestito la maglia a pois, vinto una tappa, conquistato il numero ros­so, quasi tutti i giorni siamo andati all’attacco, possiamo ritenerci soddisfatti».

Sei stato un uomo prezioso per Rigoberto Uran.
«Abbiamo un bellissimo rapporto. Nel­le prime due settimane di Tour abbiamo diviso la camera, poi essendoci po­sto in hotel abbiamo optato entrambi per la singola. Abbiamo instaurato un bel legame già dal Giro d’Italia dell’anno scorso, sa che di me si può fidare, ha capito che il mio lo so fare, a questo Tour gli ho da­to un’ulteriore conferma. Do­po l’ultimo traguardo abbiamo ce­nato insieme a Parigi con gli altri compagni e ci siamo tolti tutte le voglie cu­li­narie che avevamo accumulato, dalla pizza all’ham­burger. Rigo parla bene italiano e soprattutto è molto italiano come mentalità. La prima caratteristica che noti di lui è la tranquillità, non lo vedrai mai andare nel panico, non soffre lo stress, sia in gara che nella vita normale è tranquillo e rilassato, appare alle telecamere così com’è, naturale e semplice. A Parigi ha concesso una fo­to a ciascuno dei tifosi co­lombiani che lo attendevano fuori dal pullman, saranno stati almeno un centinaio, non ha scontentato nessuno. È unico».

Immaginavi sarebbe salito sul podio?
«No, la squadra era fi­du­ciosa ma realisticamente puntavamo alla top ten. Lui mi aveva confidato di andare forte, io so che è un campione, per arrivare due volte sul podio al Giro devi avere delle qualità non comuni, ma al Tour c’è il meglio del meglio e la vedevo una sfida ben più difficile. Lui era l’unico a crederci veramente, dopo la prima settimana abbiamo iniziato a crederci anche noi. Nel giorno in cui ha vinto Aru e Froome ha perso qualche secondo, e ancor di più quando Rigo ha vinto la tappa a Chambery abbiamo iniziato a pensare in grande. A quel punto anche noi abbiamo cambiato mentalità, dimostrandoci più at­tenti e aggressivi. Alla fine ha perso la maglia gialla per 54”, e considerando che nella crono di apertura ne ha pagati 50”, anche a causa di un cambio bici che ha dovuto effettuare all’ultimo se­condo per colpa di alcune misure che non tornavano, poteva arrivare ancora più vicino a Froome. È andato davvero molto forte».

Cosa ti ha insegnato in queste tre settimane?
«Con la sua tranquillità mi ha dimostrato che quando sei sicuro di te stesso non c’è motivo per essere nervoso. Anche nelle tap­pe pericolose con ri­schio di ventagli e sa­lite strette, in cui bis­ognava essere davanti, lui era se­rafico. La confidenza nei propri mezzi e la tranquillità sono la sua forza, un carattere così solo lui ce l’ha. È sempre sorridente, anche per questo è amato in gruppo. Tutti erano contenti di vederlo sul podio, l’ha meritato».

Della Grande Boucle cosa ti ha impressionato maggiormente?
«Il pubblico, in positivo e purtroppo anche in negativo. Da casa non ci si rende conto di quanto ri­schioso sia pe­dalare tra due ali di folla. Ormai tutti hanno in ma­no il cellulare, invece di go­dersi il passaggio della corsa vo­gliono immortalare il mo­mento non realizzando lo spazio che oc­cupa il gruppo in strada. Nei giorni scorsi con il ma­nubrio ho preso dentro bandiere, tablet, spalle, di tutto. C’è chi si gira per scattarsi un selfie e non si rende con­to di essere in mezzo alla strada e di venirti addosso. Tanto pubblico comporta anche pericolo. Un altro aspetto che non ha eguali in altre cor­se è la risonanza mediatica. Ovun­que mi giravo c’era una telecamera, una macchina fotografica o il taccuino di un giornalista. Di grandi corse a tappe io ho disputato solo il Giro un anno fa, ma qui ti senti sul serio al centro del mondo. L’organizzazione è ec­cezionale, sono molto attenti alla sicurezza, tutto è perfetto, durante i trasferimenti in aereo non abbiamo dovuto fare controlli o aspettare. L’ultimo giorno hanno bloccato Parigi! Sapevo che tutto era grande, ma non così. L’ar­ri­vo sugli Champs-Élysées è la ciliegina sulla torta».

L’emozione più forte provata?
«Ne ricordo tante. Un momento topico è stato quando Rigo ha ri­schiato di cadere all’ultima cur­va della crono di Marsiglia. Noi eravamo nello stadio e se­guivamo la sua prova dal ma­xischermo posto tra le tribune. Era quasi arrivato e stava facendo registrare un buon tempo, quando lo abbiamo visto andare “lungo” abbiamo fatto un salto, abbiamo vissuto 5-6 secondi di panico, c’eravamo dannati l’anima per 20 giorni e temevamo di aver perso tutto proprio in vista del traguardo, in­vece ha saputo reagire prontamente. Eravamo consapevoli che da terzo po­teva passare secondo nella generale, perdere il secondo gradino del podio per una curva stupida sarebbe stato il paradosso. Ci ha dato un’ultima scarica di adrenalina che da rabbia si è trasformata in un attimo in felicità».

La tappa più difficile?
«Senza dubbio quella del Galibier. Pre­metto che non avevo mai pedalato su nessuna salita del Tour, a parte l’Alpe d’Huez che avevo incontrato al Del­fi­nato, e che quel giorno ero andato in fu­ga affrontando all’attacco Col d’Or­non, Croix de Fer e Telegra­phe. Detto questo, sono stato ripreso dal gruppo ai piedi del Galibier e prima di iniziarlo ero già stremato. Quan­do ho letto che mi aspettavano 24 chilometri di salita e guardandomi attorno ho trovato solo un ragazzo della Bora, “finito” quanto me, mi è venuto lo sconforto. Mi rendevo conto di dove ero, di essere un privilegiato per essere su una salita simbolo, che ha fatto la storia del ciclismo, ma avevo male a tutto. Sem­pli­cemente non vedevo l’ora di arrivare in cima. Tra l’altro è la tappa in cui Ri­go ha preso gli abbuoni su Froome e Bardet, ma io la ricorderò per essere stata una giornata infinita con un dislivello pazzesco. Che mal di gambe...».

Quali souvenir ti sei portato a casa dalla Fran­cia?
«Il mio numero dorsale firmato da tutti i compagni, quello di Rigo con una de­dica, il tabellone con il mio nome appeso all’ammiraglia per le crono di Düs­sel­dorf e Marsiglia. A casa farò un quadretto con le tante foto belle che ho vi­sto mi hanno scattato nei giorni scorsi. Non voglio scordare niente di questa mia “prima volta”, ogni singolo giorno me lo ricorderò. Spero di avere la fortuna di correre tante altre volte il Tour, magari diventerà un’abitudine, ma l’emozione provata all’arrivo sugli Champs Élysées non la scorderò mai. Vedere le frecce tricolori francesi sulla nostra testa, per uno come me che ha la passione del volo, è stato fantastico. Per festeggiarmi a Parigi sono venuti in nove: la mia ragazza Giulia, i miei ge­nitori Marco e Laura, mio fratello mi­nore Cosimo, un amico e la sorella della mia ragazza, più una coppia di signori che ormai fanno parte della mia famiglia, Lorenzo Zanobini che è stato il mio primo diesse e ancora oggi segue la società giovanile di Castelfiorentino, il mio paese, con la moglie».

In cosa dovrai migliorare per tornarci con maggiori aspettative personali?
«Devo imparare a vincere, è tanto che non ci riesco. Le gambe ci sono, tocca solo a me provare a centrare il risultato pieno. La squadra purtroppo o per fortuna mi schiera solo in gare importanti, con grandi campioni non è facile primeggiare, ma è ora che tenti il colpaccio. Dopo San Sebastian e London Clas­sic al servizio di Uran, spero di far bene alla Classica di Amburgo e a Plouay, dove fui secondo un anno fa. Dal Tour esco con una buona condizione, non vedo l’ora di raccogliere i frutti di tanta fatica. Devo solo ricordarmi co­me si fa a vincere...».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di agosto
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COMMENTI
Grazie
31 agosto 2017 03:40 palo
Grazie a Giulia e grazie a TuttoBici per queste belle interviste che ci aiutano a conoscere meglio i nostri campioni e a capire quanto sia difficile la pratica di questo bellissimo sport. Grazie

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