UN GIRO AL TOUR. FEDERICO C'È DA PRIMA

PROFESSIONISTI | 08/07/2017 | 07:47
Secondo l’immortale insegnamento di Alfredo Martini - i corridori non sanno mai niente, devi chiedere agli altri - prima che il Tour entri nel vivo due chiacchiere con Federico Borselli ti danno immediatamente un quadro di quello che ti aspetta. E siccome Federico guida (guida è riduttivo: diciamo domina, conduce, impera, insomma è il padrone di casa) il bus dell’Astana di Fabio Aru, il suo parere quest’anno mi stava particolarmente a cuore. Quando Fede mi ha risposto «ci divertiremo», ho capito che potevo stare tranquilla. E quando ho visto Aru alzarsi sui pedali sul punto più duro della Planche des Belles Filles, non mi sono sorpresa neanche un po’. Emozionata sì, ma questo è un altro discorso.

Federico è lì da prima. Da quando frequento le corse lui c’è, e non gli avevo mai chiesto com’è cominciata. «Lo sai, sono sempre stato malato di moto, di motocross. Oh, te lo ricordi che due anni fa ho corso gli Internazionali d’Italia, c’era anche Cairoli, e non sono neanche arrivato ultimo?». A volte Fede la prende da lontano. «Era l’85, faccio una gara regionale e mi rompo i legamenti crociati del ginocchio. Il dottor Costa, sai, il mitico dottor Costa, quello che rimetteva in piedi i campioni di moto quando erano a pezzi, lui, mi fa: devi andare in bici se vuoi recuperare. Eccomi qua».

Beh, insomma, guidi il pullman... «Ah beh. Il fatto è che Bruno Vicino era sposato a Borgo San Lorenzo, a cinquecento metri da casa mia. Sai, lui correva». Certo. Dunque? «Il mio sogno era aprire un’azienda, avere dei camion. Intanto guidavo le cisterne della Esso, la benzina». Le notti al Tour sono fatte apposta per le lunghe chiacchierate, tanto negli alberghi l’aria condizionata non c’è quasi mai ed è sempre troppo caldo per dormire. Questa storia sembra molto lunga, ma noi abbiamo tanto tempo. «Poi ho vinto il concorso dell’Ataf, a Firenze. Mi fecero mettere in moto e dopo duecento metri mi fermarono: vai bene, mi dissero, sei passato. E cominciai a guidare gli autobus». E Bruno Vicino cosa c’entra? «Ah, lui mi presentò Franco Gini».

Questa storia è piena di risate ma anche di magoni. Di sogni, di ricordi, di persone che riempiono la vita e all’improvviso non ci sono più. E’ così sempre, ma quest’anno Federico ci pensa un po’ di più. In pochi mesi ha perso la sua mamma, un caro amico, e un corridore che era più di un amico. «Di Scarponi me l’ha detto Mario». Mario è Cipollini, Fede è stato la sua ombra per vent’anni, l’uomo che lo aspettava al traguardo, quello che lo capiva con uno sguardo, il suo tramite con il resto del mondo. «Vedo che mi chiama a quell’ora del mattino. Troppo presto, penso subito a un guaio. Mi sente tranquillo, sono lì da un mio amico a caricare la moto. Mi fa: ma allora non è vero? E io: non è vero cosa? Ho piantato tutto e non so come mi sono ritrovato a Filottrano da Anna e dai bambini, non so neanche che strada ho fatto. Ne ho passate tante, ma questa è troppo grossa. Non sono più quello di prima».

Quello di prima è un amico, sempre allegro, sempre pronto ad accoglierti con una battuta (e un impagabile caffè), sempre capace di vedere il lato buono. «Quest’anno me ne sono successe troppe. Meno male che Grazia e i miei fratelli mi hanno aiutato, io sono sempre in giro». Grazia è la moglie di Fede, e la mamma di Michela, che ha venticinque anni, una laurea in lettere e adesso anche un lavoro. I fratelli sono Tiberio, Angela e il piccolo di casa, Filippo, che lavora nei software in un’isola sulla Manica. Noi però eravamo rimasti a Franco Gini. «Un giorno mi fa: si è fatto male un meccanico, vuoi guidare il pullman in Spagna? Era il ’94, la squadra era la Mercatone, allora in Spagna si stava in tutto quaranta giorni. Dopo dieci giorni Gini mi chiama: i corridori sono contenti di te, se ti va puoi firmare il contratto. Da quel pullman non sono più sceso». I corridori erano Martinello, Scirea, Baffi, Bartoli, Casagrande, Fornaciari, Donati. Ovviamente Cipollini. «Arrivo a Valencia e Salutini mi fa: vai all’aeroporto a prendere Chioccioli e Cipollini. Chioccioli aveva vinto il Giro d’Italia, Cipollini era un idolo. Ero elettrizzato, anche un po’ in soggezione. Mi avevano detto tutti che Mario non era un tipo facile. Gli vado incontro, mi presento, mi ascolta due minuti e mi fa: Beh, parli toscano? Gli dico che sono del Mugello, lui sorride. Da quel momento siamo andati sempre d’accordo. Mai un litigio, mai niente da dire. Per me è un fratello».

Gli anni della Saeco, con Claudio Corti, tre stagioni alla Lampre, un anno alla Quick Step con Bettini
, poi il 2009. «L’unica cosa che non rifarei: seguire Martinelli all’Amica Chips, durò sei mesi. E dopo non ne volevo più sapere, ero troppo deluso. Poi Martino e Tosello hanno insistito, e sono rientrato. All’Astana. Dove c’è anche Shefer, che era stato uno dei miei corridori alla Saeco». Non meravigliatevi se Fede parla come un direttore sportivo. Il ciclismo è una grande famiglia. I corridori sono di tutti, e anche le vittorie. Io condivido. «Ho vinto sette grandi giri, i podi neanche li conto». Il Giro con Gotti nel ’97, con Simoni nel 2003 e con Cunego nel 2004. E poi i due Giri di Nibali, la Vuelta con Aru e il Tour ancora con Nibali. «A Michele non puoi più chiederlo, ma te lo dico io: alla fine del Giro dell’anno scorso gli unici che ci credevano ancora eravamo io e Scarponi».

Fede c’era ai Tour di Cipollini, quando per i francesi era Cipò. «Ha sempre avuto un rapporto di amore e odio con il Tour. Credo che non abbia mai pensato sul serio di arrivare a Parigi: partiva con l’idea di correre i primi dieci giorni e basta, sentiva il profumo della Versilia anche da Lione. E scappava. Peccato, a me sarebbe piaciuto vederlo sui Campi Elisi. Come quell’anno che andò sul podio di Milano, al Giro del ’97, in smoking bianco. Eppure le montagne del Giro sono più toste di quelle francesi, Mario non aveva paura delle montagne, se voleva in salita se la cavava. E’ che d’estate voleva andare in Versilia. Ti ricordi gli assedi al pullman? Solo per Pantani c’era tanta gente così. E le donne? Venivano da me e mi chiedevano di portarle in camera da Mario. Un delirio, erano pronte a prenderselo e portarselo via».

Fede c’era a Zolder, perché Bàllero lo chiamava in Nazionale. «Un altro pezzo di vita che ho perso per strada. Franco l’ho visto crescere, andavo in bici col su’ babbo. La settimana prima di morire aveva organizzato un giro in moto, era appassionato anche lui, la moto gliela prestava un mio amico di Monsummano. Dovevamo andare sugli Appennini a mangiare i tortelli. Non siamo riusciti ad andarci. Una cosa che non ho capito è perché muore sempre la gente perbene, con tutti gli ignoranti che ci sono».

Fede le corse le ha fatte tutte, «ma sono malato per le classiche del Belgio, e penso che il Giro sia la corsa più bella del mondo, i francesi sono solo più bravi a vendere il loro Tour». Fede c’era sempre. «A parte Mario, che è un fratello, nel cuore ho Gibo Simoni e Vincenzo Nibali. Quando Simoni vinse la tappa al Tour mi disse di trovargli un bel posto. Lo sanno tutti che io sono speciale per conoscere i posti giusti dove andare a mangiare. Prenotai sugli Champs-Elysées, un locale magnifico, c’era anche il balletto. Gibo invitò a cena tutta la squadra, tutto il personale: credo che gli costò più di una mano. Per uno come lui sono pronto a tutto: se mi chiama a mezzanotte, parto e vado. Poi Vincenzo: sono stato io a fargli conoscere Cairoli. Sai, l’unico ambiente per cui potrei pensare di lasciare il ciclismo è quello delle moto. Abito a tre chilometri dall’autodromo del Mugello, con quella passione ci sono nato. Sono diventato amico di Matteo Flamigni, il telemetrista di Valentino Rossi. Lui è romagnolo, di Modigliana, ci sono 45 chilometri da casa sua a casa mia, e quando c’è il gran premio al Mugello è capace di farli in bicicletta. E’ appassionato». Parlavamo di Nibali? Fede sorride. «Quel corridore lì mi ha dato emozioni uniche. Spero di poterle provare ancora, chissà».

Ma i corridori come sono? «Sono cambiati. Io ho un po’ di nostalgia del mio gruppo, Cipollini, Scirea, Calcaterra, Fagnini, c’era da buttarsi via dal ridere. Il momento più bello? Quando Mario vinse quattro tappe di fila al Tour, era il ’99. Bello. La sera dopo la tappa si stava tutti assieme, si rideva, magari si faceva una bevuta. Adesso filano tutti in camera appena possono, sono sempre con la testa sul telefono, se gli metti davanti un muro picchiano la testa». Sono così tutti, mica soltanto i corridori. «Beh. Ogni tanto mi mancano quelli di prima, quelli di una volta».

Mi rimane soltanto una curiosità. Uno che porta il pullman alle corse centottanta giorni l’anno, e che appena può va a correre sulla moto da cross, che macchina guida quando è a casa? «No, niente. Io la macchina non la guido, non mi garba. Faccio guidare la mi’ moglie. Al massimo, se proprio c’è bisogno, prendo il furgone».

Alessandra Giardini
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COMMENTI
Grande Fede!
8 luglio 2017 17:47 Cucciolo89
Grandissima persona e soprattutto grandissimo personaggio di cicismo

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