BENEDETTI, L'UOMO OMBRA

PROFESSIONISTI | 26/04/2017 | 07:50
Il protagonismo è un vizio a lui sconosciuto. E sconosciuto ai più, spesso, è anche il suo terreno preferito. Nella vita, come in gara. Cesare Benedetti, preferisce muoversi lontano dai riflettori. Essere uo­mo ombra. Nasce a Rovereto, città con almeno sette località omonime in Ita­lia. In fondo, anche questo un modo per far perdere le proprie tracce e salvaguardare la propria indipendenza. «Io uomo invisibile? Sì mi ritrovo nella definizione», spiega il trentino, classe ’87 e al terzo anno con la tedesca Bora.
 
C’è un solido realismo e una matura consapevolezza nelle parole di Bene­detti. Uno che ha imparato a farsi da solo, anche a costo di attraversare il con­fine. Dopo le preziose esperienze con Gavardo e Uc Bergamasca, il salto nel professionismo lo fa con una squadra Continental tedesca, la NetApp. È il 2010. Da quel momento, Cesare sparisce dai radar ciclistici italiani e si co­struisce una carriera in terra tedesca. Nell’aprile 2015, però, si toglie la soddisfazione di vincere la cronosquadre al Giro del Trentino, sulle strade di casa. Dopo la Riva-Arco veste anche la maglia di leader e nell’autunno del Lombardia dà sfoggio delle proprie doti anche sul muro di Sormano, che scala in solitario. Ma il suo destino è quello di non stare né un passo avanti né uno indietro. Più semplicemente, di lato.

E anche alla Sanremo hai lavorato duro per Sagan, consentendogli di giocarsi ai centimetri la vittoria con Michal Kwiat­kowski.
«È andata bene, sono contento di essere riuscito a portare a termine l’obiettivo della squadra. Poi, certo, ci aspettavamo un altro epilogo e la vittoria di Peter. Ma le corse sono così»

A proposito, com’è Sagan visto da vicino, quotidianamente?
«Fuori corsa tiene alto il morale della squadra. Gli piace la musica, con lui non ci si annoia. Durante le corse a tappe è importante anche riuscire a staccare. Pensare e parlare di altro».

È la persona Sagan, in altre parole, tra le poche capaci di arrivare prima del corridore Sagan?
«Il corridore rispecchia il carattere della persona. Ho visto altri ragazzi andare forte in bicicletta, ma incapaci di farsi volere bene. Invece è importante anche il contorno, l’atteggiamento con i compagni durante le gare e dopo di queste».

E se lo dice uno che corre innanzitutto per i compagni…
«Mi ha sempre dato soddisfazione la­vorare per gli altri. Quando da ragazzino guardavo le corse, pensavo che mi sarebbe piaciuto fare da ultimo uomo a qualche velocista. Il mio fisico - con poco più di 63 chilogrammi al peso forma spalmati lungo 170 centimetri - non me lo ha permesso. E così ho dovuto riadattarmi alle mie ca­ratteristiche».

Pragmatismo e lucida analisi delle forze a disposizione: il segreto è tutto qui?
«Da giovani, l’obiettivo è ovviamente quello di fare risultato. Di vincere e passare di qua, nel professionismo. Poi, quando effettivamente ti trovi dall’altra parte, capisci che devi confrontarti con due aspetti: i tuoi limiti e i migliori corridori del mondo. E se per un paio di stagioni non fai risultati, rischi di stare a casa. Quindi è im­portante sapersi rimodulare a nuovi obiettivi. Il mio è quello di aiutare gli altri e questo mi ripaga».

Far di necessità virtù non rischia di suonare come una mezza sconfitta?
«Da juniores andavo più forte quando facevo la corsa per i miei compagni piuttosto che quando cercavo il ri­sultato per me stesso. Forse quando viene me­no la responsabilità del risultato, si ha la testa più leggera».

È stato naturale calibrare i tuoi obiettivi su quelli degli altri o ti è costato sacrificio?
«Ci sono stati momenti non semplici. Ma poi ho seguito le direttive della squadra e ho cominciato a correre nel modo che serviva al team. In una squadra piccola che aveva un bel ca­lendario, con gare importanti, occorreva farsi vedere e far vedere la ma­glia. A volte l’obiettivo principale è entrare nella fuga di giornata e farsi riprendere dalle tv».

Uno scatto mentale, quest’ultimo, che però non sempre è immediato.
«Tra i dilettanti c’erano ragazzi che andavano più di me, che vincevano con costanza. Poi, dopo due anni tra i pro, hanno smesso. La consapevolezza è importante. Ma è un po’ colpa anche del sistema, soprattutto negli ultimi anni: se non vai forte da subito, ti lasciano a piedi. La differenza la fa chi ti trovi davanti, dall’altra parte. E parlo di dirigenti. Qui in Bora ho sem­­pre fatto quel che dovevo fare. An­che se a mia volta, due anni fa, ho rischiato di restare al vento…».

Per quale motivo?
«Non saprei spiegarlo bene nemmeno io. Ma puntavano sui giovani tedeschi e per il 2016 venni a sapere che non c’era più posto. Poi hanno cambiato idea».

In quei momenti c’è stata qualche squadra italiana che si è avvicinata a te?
«No, non c’è stato alcun interessamento».

La tua esperienza dice che ti sei costruito una carriera all’estero. Sei figlio del sistema di cui parli o sei un’eccezione?
«Io ho avuto questa occasione e l’ho sfruttata. Non senza difficoltà. Ho sbattuto la testa contro il muro più volte, poi con un po’ di forza di vo­lontà ho cercato di mettere a segno le oc­ca­sioni che mi si sono presentate. Uno non può aspettare tutta la vita che lo chiami la Sky. Col senno di poi, sono contento della mia scelta. Tanto che non mi vedrei più in una squadra italiana…».

Ma se arrivasse una chiamata?
«Non ci sono più squadre… E poi, a livello personale, questa mia esperienza all’estero sono sicuro che pa­gherà, nel mio futuro. Essere a contatto con mentalità diverse è un test che forma»

Intanto tu, però, continui a vivere in Trentino, a Mori. Dove c’è anche un velo­dromo…
«Da cinque anni sono lì, ma in pista ci sono andato solo due volte, da ju­niores. Sono contento che ci sia quella struttura, che è in cemento e all’aperto. È lunga 500 metri, non è un velodromo da gare. Ma offre la sicurezza per chi si avvicina a questo sport. Mia moglie Dorotea allena lì i G1 e i G2 della Sc Mori. Io però in Trentino ci sono poco, off season so-no in Polonia, Paese natale di mia moglie. Viviamo nella regione della Slesia».

Come comunicate tra voi?
«Fino a poco tempo fa in inglese. Ora in polacco, che è la lingua che sta imparando an­che mia fi­glia Janina, che ha 8 mesi. Mi capita di stare via di casa anche 20 giorni e ora, con una bimba piccola, mi pesa di più. Ma nel mio la­voro cerco di fare le cose al meglio, pensando che mettere impegno nel mio lavoro è anche utile al bene della mia famiglia. E questa è una grande motivazione».

Hai le idee chiare sia in sella che giù dal­la bici, insomma.
«Mi è sempre piaciuto fare poche cose, ma farle bene. Credo nella forza di vo­lontà, con la quale si riesce a fare tutto. Poi, certo, dipende da persona a persona. Io ho studiato al liceo scientifico, poi ho smesso con la scuola. Ma senza rimpianti. Ho letto di Quinziato, che ha completato l’università: tanto di cappello. Io non avrei saputo neanche che fare, a che facoltà iscrivermi. E in­seguire una laurea tanto per dire di averlo fatto non mi interessava. Ho puntato sulla bicicletta e mi è andata bene».

Il Benedetti che non pedala che fa?
«Non ho hobby particolari, mi piace la montagna. E negli ultimi mesi la bimba mi riempie i pochi buchi di tempo libero. A tavola ho conosciuto la cucina polacca, che ha molte similitudini con quella trentina. Entrambe si rifanno alla tradizione austroungarica, con piatti abbastanza carichi di sapori. Du­rante la stagione agonistica sono rigoroso, mia mamma ogni tanto mi cucina qualche specialità trentina in versione light. Ma in autunno, al termine della stagione, qualche licenza culinaria me la prendo».

Un trentino, sposato con una polacca, e che lavora per un team tedesco. Con loro si parla di Alto Adige o Sud Tirol?
«Io sono per l’indipendenza del Tren­tino Alto Adige e mi sento più tirolese che italiano. I miei nonni sono nati in territorio austriaco, poi la storia ha detto altre cose. Ma anche il mio team, più che tedesco, è bavarese».

Tra tanti tedeschi, quest’anno in Bora hai un italiano a farti compagnia: Matteo ­Pelucchi. Ci sono sintonia e condivisione di vedute e mentalità? Insomma, più im­me­diatezza?
«Anche lui ha sempre corso all’estero, dalla Europcar alla Iam. Ci si confronta, è normale, soprattutto quando uno arriva da un’altra realtà. Alla Tirreno abbiamo condiviso la camera e ci sia­mo conosciuti meglio. Ci siamo divertiti».

Pro­­prio alla Tirreno, a Fermo un gruppo di tifosi polacchi ha portato una tua gi­gantografia. Erano amici o parenti acquisiti?
«Sono dei fan, che erano anche al Tour. In effetti ho più tifosi in Polonia che in Italia».

Dove tornerai per il prossimo Giro, pro­ba­bilmente.
«Quest’anno sarà dura. Ho corso il Tour del France, lo scorso an­no, con il 39 da­vanti. In due o tre tappe del Giro servirà il 36. Speriamo di fare bene»

C’è qualche tappa che ti stuzzica più di altre? Magari qualche passaggio sulle Dolomiti…
«La prima tappa, in Sardegna. Una tappa mossa con arrivo in volata, adatta magari proprio a un corridore come Matteo Pelucchi. Non sarebbe male vincere quel giorno e prendere la ma­glia. Sarebbe un bel successo per la squadra».

Perché lui, Cesare Benedetti, anche in questo preferisce sottrarsi al sole di Olbia e al cono di luce. Per restare nell’ombra.

Stefano Arosio, da tuttoBICI di aprile
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COMMENTI
26 aprile 2017 13:50 tempesta
Ha avuto coraggio e si guadagna i soldi faticando, non come i cosidetti arrivati che non fanno nemmeno il Numero e prendono soldi solo che raccomandati.Bravo BENEDETTI

indipendenza!
26 aprile 2017 15:35 lodz
"Io sono per l’indipendenza del Tren­tino Alto Adige" uscita veramente sfortuna questa ragazzo mio! avete già la regione a statuto speciale dal 1948 che ora nel 2017 non ha più assolutamente senso! sfortunatamente ti chiami Benedetti e sei cresciuto in un paese che si chiama Italia che si stiamo ad ascoltare tutti i vari indipendentismi e indipendentisti(con rispetto)non andiamo da nessuna parte, solo allo sfascio, tristezza.

indipendenza bis
27 aprile 2017 00:44 forzaG
Caro lodz, rispetto le tue idee, ma è prorpio a vivere in un paese che si chiama Italia che non si va da nessuna parte...

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