Si sono rimessi a correre in giro per il mondo, ma pare nessuno si sia accorto di un posto vuoto: mancava Chiappucci, uno che non mancava mai. Purtroppo è andata così. Da diverse stagioni aveva difficoltà a tenere il passo, un passo che per tanto tempo ha dettato lui, irritando spesso i suoi colleghi, perché era sempre un passo allegro, anche quando non serviva. Ma bisogna dirlo: proprio questa sua incontrollabile vocazione da cane sciolto, questa sua impossibile collocazione nei clichè tradizionali del ciclismo conformista, questa sua naturale irruenza individualista, proprio questo suo modo personale e naif di correre l’aveva collocato là dove il suo talento naturale mai gli avrebbe permesso di restare un solo giorno: tra i più grandi, tra gli indimenticabili.
Per tutto l’inverno ha tenuto le cose in sospeso, annunciando l’annuncio della nuova squadra di lì a poche settimane. Ma l’inverno è passato, la primavera è arrivata, il gruppo s’è mosso, e lui ancora non c’era. Dopo tanti anni, assente alla Sanremo che l’aveva sparato in cima alla popolarità - ovvio, insieme al Tour -, con l’impresa che secondo me resta la più vera e la più attendibile della sua carriera, più del Sestriere, perché quel giorno in Riviera tutti volevano vincere e a nessuno faceva comodo che lui andasse in fuga. E poi assente anche alle feroci classiche del Nord, dove per lungo tempo, prima dei Bugno e dei Bartoli, era l’unico italiano presente all’intero ciclo, dal Fiandre alla Liegi, accontentandosi solo di piazzamenti, però sudati e virili. Personalmente lo conobbi proprio lì, in un albergo sopra Liegi, anno 1989: andai a conoscerlo per raccontare la storia di un gregario capace di sfidare terreni e meteo proibitivi, senza saltare una sola corsa, unico italiano sempre al via tra i pochi italiani che allora oltrepassavano il Brennero. Mi piacquero la sua semplicità, la sua beata serenità. Il suo coraggio e la sua spregiudicata vitalità. Uscendo dalla camera, dove aveva steso indumenti fradici ad asciugare, mi venne naturale una domanda: com’è che uno così fa il gregario?
Col tempo ebbi le mie risposte. Arrivò il famoso Tour, arrivò la maglia gialla con 10’ di vantaggio, arrivò quell’incredibile sconfitta da Lemond. Chiappucci, nel bene e nel male, coi denti e con le unghie, non era comunque più un gregario. Vittorie poche (se Righi la smettesse di sacralizzare sul suo almanacco anche i circuiti farebbe un favore a tutti, persino a Chiappucci), ma popolarità tantissima. Tanto da arrivare alla famosa rivalità, entrata poi nella storia del costume italiano, con Bugno. Due mondi e due modi così diversi, una contrapposizione perfetta per dividere il pubblico (mi schiero un’ultima volta: Bugno il purosangue, Chiappucci il cavallo da tiro, tecnicamente scelgo Bugno).
Televisione, giornali, soldi, successo: la vita ha sorriso, giustamente, al valoroso gregario diventato campione. Eppure adesso manco se ne sono accorti di quel posto vuoto. Com’è possibile? Si può archiviare il triste fenomeno di oblìo collettivo con le fetenti leggi del tempo? Un poco certamente sì, ma non basta. Perché Chiappucci ci ha messo anche qualcosa di suo: ha deciso, non ho ancora capito se per sua scelta o solo perché male consigliato, di invecchiare nel livore.
Una volta era in guerra col gruppo, adesso è in guerra col mondo. Dal mondiale di San Sebastian in poi, ha passato quasi più tempo dal suo avvocato che in corsa. Conosco bene la vicenda perché, incidentalmente, sono uno dei beneficiari di questo nuovo Chiappucci che brandisce il codice: proprio dopo San Sebastian, quando fu mandato via alla vigilia del mondiale perché trovato con valori di ematocrito troppo alti, mi querelò. Il mio reato? Dovendo scrivere anche per impiegati del catasto e parrucchiere di Reggio Emilia, cioè gente giustamente non tenuta a conoscere chimica e burocrazia sportiva, spiegai come Chiappucci fosse escluso perché il provvedimento, in teoria nato «a tutela della salute dell’atleta», sanciva in realtà, in parole povere, in concreto, fuori dalle ipocrisie dei regolamenti, il sospetto che l’atleta avesse usato Epo sintetica (negli anni a seguire, mi pare si siano fatti tutti una cultura...). Questo dovevo ai lettori, questo mi limitai a scrivere. Senza infierire, senza esagerare. Non avrei potuto farlo: perché io a Chiappucci ho voluto bene. Con Bugno, con Indurain, è stato il campione (in questo termine, che ho usato tante volte, c’è la mia vera forzatura...) il campione di un periodo bellissimo. Per questo non avrei potuto fargli del male. Eppure lui, assistito dal suo avvocato, ritenne di dovermela far pagare. A me come ad altri, e come - con due anni di ritardo - alla stessa Federazione, querelata per lo stesso episodio.
A chi interessasse la fine della storia personale, dico solo che Chiappucci ha perso anche questa gara: già il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione del caso, il Gip l’ha poi concessa con una motivazione che ancora adesso mi consola, perché mi riconosce di aver fatto nè più nè meno il mio lavoro (porto sempre in borsa il decreto del Tribunale di Monza: capita così poche volte che i giornalisti abbiano così pienamente ragione in un palazzo di giustizia). Peccato, tra me e Chiappucci poteva finire meglio. Ma poco importa, è un dettaglio marginale. Adesso conta molto di più come Chiappucci riuscirà a lasciarsi con la gente che l’ha amato e che l’ha eletto a simbolo di emancipazione. Le premesse non sono esaltanti. Io gli auguro comunque di riuscirci nel modo più romantico, perché è bello smuovere le emozioni nelle vesti di corridore, ma è stupendo smuovere i ricordi nelle vesti di uomo. Senza l’aiuto di un avvocato.
Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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