M’interessa poco sapere come finirà la vicenda di Schwazer, mi preme capire cosa ha spinto Donati ad incominciare. Non m’importa sapere chi abbia fregato il marciatore marcio, se c’è per davvero un complotto o se il bisteccone era contaminato, perché di questo se ne occuperanno le autorità competenti. Per me al momento, stando così le cose, la vicenda del marciatore marcio è solo un Grande Boh. Un mistero.
Il Grande Boh avvolge la triste vicenda di Alex Schwazer. Triste per quello che rappresenta e per come è rappresentata. Nulla di nuovo sotto il sole, sia ben chiaro, il copione è lo stesso. Le litanie sono esattamente quelle che ascoltiamo da anni ogni qualvolta un atleta finisce nelle maglie non più larghissime dell’antidoping. Si va dallo stupore alla rabbia. Dall’indignazione alle scuse più bizzarre e creative. Tutti negano, nessuno escluso, fino alla fine e fin che si può. La regola aurea è sempre una e una sola: negare, negare e negare ancora. E già che ci siamo vediamo anche di gettare nel ventilatore una bella quantità di scuse, supposizioni e scenari possibilmente oscuri. Obiettivo? Confondere le acque, rendere la verità meno vera.
Il Grande Boh è l’unica certezza di questa vicenda, anche se non abbiamo l’anello al naso. Ne abbiamo viste e sentite troppe in questi anni. Siamo cresciuti a pane e doping, costretti a documentarci più sulla densità del sangue che sulla lunghezza delle pedivelle. Più sui globuli rossi che sulle fibre bianche. Tanti i dubbi e molti i Boh. Quello che mi preme di più, però, è comprendere la posizione presa da Sandro Donati. Schwazer, sportivamente parlando, per quanto mi riguarda, è morto da tempo ma qui c’è di mezzo la figura immensa di un uomo che ha fatto cose grandissime per la credibilità dello sport e ha gettato tutto alle ortiche per la propria ambizione, per il proprio ego: il Grande Ego. È ben diverso il “sentimento” verso un uomo che in questi anni ha fatto molto per la lotta al doping. Nessuno o almeno pochissimi hanno avuto il cuore e il coraggio di fare quello che ha fatto questo maestro di sport che negli ultimi trent’anni è diventato molto più semplicemente il Maestro. Sulla questione della carne contaminata ha dichiarato che «è una tesi che mai mi sarebbe passata per la mente». Meno male, almeno questo, visto e considerato che tutte le volte in cui ho parlato con lui e l’ho invitato a spiegarmi le dinamiche di chi si dopa, mi ha sempre invitato a non innamorarmi mai dei corridori, di nessun atleta. Francamente non so cosa gli possa essere passato per la mente quando ha deciso di affiancare il proprio nome, la propria storia e la propria credibilità a quella di un baro. Sposare la causa imbarazzante di uno che ha mentito fino a quando non ha potuto più farne a meno, fin quando non l’hanno messo spalle al muro, sbugiardandolo in mondovisione. Io, che non posso considerarmi un amico di Donati, ma sicuramente un grande estimatore che ha sempre raccolto i suoi pensieri e ascoltato le sue opinioni con assoluto interesse, non riesco proprio a capacitarmi di questa scelta.
So perfettamente che i suoi sodali vanno in giro dicendo che Schwazer è un campione, al netto del doping. «Questo è un talento purissimo», mi hanno assicurato colleghi che per anni non hanno concesso attenuanti ai corridori ciclisti: mai un dubbio, mai un’esitazione, anche di fronte ai casi più delicati e complessi. Per loro un ciclista, in quanto tale, è un baro. Punto. Di fronte a questo marciatore, che ora vogliono anche far passare per un mostro di simpatia, si stanno facendo in quattro per dimostrare la sua estraneità ai fatti. La sua buonafede. Non parlano di complotto, ma ne seminano il germe. Schwazer è un talento purissimo, che sarebbe diventato campione anche senza ricorrere al doping, questo è il pensiero illuminato degli illuminati. Io che m’ispiro molto più semplicemente all’illuminismo, penso che anche Lance Armstrong, che considero uno dei peggiori ceffi che il ciclismo abbia mai incontrato, sia stato un talento di prima grandezza. Io critico Armstrong per la sua arroganza, per le sue protezioni politiche, ma non dirò mai che lui è il frutto di laboratorio. E allora perché Donati considera oggi il marciatore marcio un esempio di atleta inattaccabile e degno delle sue attenzioni e della sua redenzione? E perché gli altri no? Perché ha sempre predicato disincanto verso certi atleti e ora la sua posizione è cambiata? Perché questa mutazione genetica e di pensiero? È questo quello che mi spiazza e mi getta nello sconforto. Donati avrebbe dovuto e doveva rimanere figura terza, «super partes», un signore. Un Gran Signore garante dello sport pulito. Invece non ha resistito al fascino e al richiamo di andare a ricoprire il ruolo di chi sogna di redimere anche i ceffi più incalliti, come quelle belle donne che hanno il cuore di panna e pensano di poter cambiare anche i Fabrizio Corona. Non m’interessa sapere come andrà a finire la storia marcia di questo marciatore, ma so perfettamente che Donati da questa vicenda ne esce come Icaro: sognava di volare sempre più alto ed è finito troppo vicino al sole. Questa volta, però, a sciogliergli la cera che teneva assieme le sue forti ali è Schwazer: pensava fosse il sole, ma era semplicemente solo. E solo o perlomeno senza Donati, doveva restare.
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