E’inutile negarlo, c’è sempre una ragione di più, un motivo di urgenza maggiore, per parlare di doping. Nel ciclismo.
Ma non ci turba, francamente, la storia di Casagrande che dopo la sospensione per ematocrito fuori norma alla Vuelta trova a braccia aperte un nuovo team di eccellenza - o che si sia tacitamente d’accordo su questo escamotage, fra direttori sportivi che lottano il doping? - e sfiora pure il successo al Giro dell’Emilia, alla faccia del virginale aplomb azzurro di Basso...
«Succede», come dice la canzone, nella vita e nel ciclismo.
Ci sconcerta, e vorremmo che fosse ben altrimenti amplificata, la vicenda di Tyler Hamilton, il ciclista statunitense della Phonak, il primo atleta ad essere squalificato per sospetto di emotrasfusione, alla Vuelta España. Ma letteralmente salvato, da una analoga ed in certo qual modo più pesante sanzione, ai Giochi di Atene, dopo il successo e la medaglia d’oro nella cronometro. «Salvato», dopo il dubbio del primo esame del 19 agosto, solo per un vizio di forma: per l’errata conservazione, appunto, del flacone B, quello propriamente destinato alle dovute contranalisi!.
E chi, cari lettori, in una Olimpiade pure così determinata e severa, così applaudita, sul versante dei controlli antidoping, è potuto scivolare - in buona fede - su un errore così marchiano? Conservare in frigorifero il flaconcino di sangue, in modo da renderlo illeggibile!
Ed a quale «buona fede» del suo laboratorio di Atene, un laboratorio di professionisti per una occasione particolare ceduto a dilettanti, può credere, senza la verifica di una inchiesta cristallina, il professor Ljungqvist, presidente della Commissione Medica del CIO?
Per fortuna che scendono oggi in campo, a combattere inauditamente il doping, affianco ai professionisti ed a noi grigi reduci dell’antidoping, anche altre categorie di lavoratori. Ad esempio, per concederci un sorriso, pure l’establishment dell’Hotel Palafox di Saragozza che ha difeso ad alta voce il suo nome, di fronte alla pubblica opinione ed alle autorità spagnole. «Quattro atleti della T-Mobile - Hieckmann, Klier, Botero e Wesemann - si sono ritirati alla Vuelta España, a Saragozza, a causa di una intossicazione alimentare», asseriva il dottor Blum, medico sociale dello squadrone tedesco.
Ma di quale tossinfezione si blatera, se il menù proposto dall’Hotel Palafox è stato assolutamente uguale per la T-Mobile e la Liberty Seguros, le due squadre che vi alloggiavano, eccezion fatta per il budino di riso, richiesto solo dai golosi tedeschi, unica variante, e risultato poi agli esami chimicofisici praticati successivamente del tutto sterile ed innocuo?!
E riusciremo mai, noi purtroppo memori dell’avvelenamento da Intralipid avariato patito dalla PDM al Tour ’91, a concedere una minima credibilità al timido dubbio espresso da Cadel Evans, altro «T-Mobile», rimasto in corsa: «a farci male, potrebbe essere stata pure l’insalata di mare»? E cosa mai succede, di misterioso o malefico, negli hotels di tutto il mondo ciclistico, che scatena ubiquitariamente queste patologie gastrointestinali così squassanti ed invalidanti, a ciel sereno, pensando infine a quello stesso Ullrich che dichiara una allarmante “gastroenterite”, pure dopo un brillante Giro dell’Emilia?
Oltre il sospetto, c’è sempre una ragione di più, per informare ed avvertire sul doping. A costo di essere impopolari. E talvolta c’è anche una ragione francamente di troppo. Come nel caso dell’ultima positività denunciata ai Giochi Paraolimpici di Atene. In Grecia, lì dove Hamilton l’aveva scampata a stento, è stato squalificato infatti, nel tandem, lo slovacco Juraj Petrovic, il guidatore «abile» di un ciclista disabile, Vladislav Janovjak. Positivo per glicocorticoidi, e privato della medaglia di argento conquistata. Lui ed il suo incolpevole passeggero. Per una giustizia senza pietà.
Come d’altronde senza pietà, per lo sport e per il ciclismo in particolare, lo si voglia o no, si conferma il doping.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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