| 28/02/2012 | 08:53 Un bel po’ di anni fa un quotidiano sportivo bolognese, Stadio, la cui testata esiste tuttora in subordine al Corriere dello Sport, annunciò il passaggio pionieristico al colore, inizialmente soltanto per la prima pagina. Su quella storica prima pagina erano a colori anche i titoli, compreso quello che rivelava che nell’estate ventura il Tour de France sarebbe partito da Melbourne. Non si parlava ancora del Concorde, l’aereo supersonico che ha accorciato le distanze ma ha pure poi avuto vita breve e tragica, però la notizia non procurò particolari stupori, così come venne appresa da chi si era limitato alla lettura del titolo. Il ciclismo era allora sport dominante in tante nazioni europee, poteva permettersi un viaggio lunghissimo per far dare il via al Tour da un canguro nell’emisfero australe. Chi poi andava a leggere la notizia stessa aveva la rivelazione: non Melbourne - la metropoli australiana dove i Giochi olimpici del 1956 avevano visto nella prova ciclistica su strada la vittoria di un italiano promettente assai, Ercole Baldini, che da dilettante aveva poche settimane prima conquistato il record assoluto dell’ora -, non Melbourne ma Mulhouse, città francese dell’Alsazia, vicina ai confini con la Svizzera e la Germania. Un banale errore di trascrizione, o meglio di confezione materiale del titolo. Allora la confezione avveniva a mano, nel senso che il tipografo allineava i caratteri (di piombo ma anche di legno, se grossi) seguendo le indicazioni del titolo, di solito scritto su carta comune e passatogli dal redattore. Leggere Melbourne per Mulhouse - cittadina della cui esistenza si poteva anche non sapere - ci stava. Non ci stava che l’errore sfuggisse ai correttori prima, ai redattori poi, quando la bozza della pagina fosse finita sotto osservazione. Ma evidentemente le attenzioni di tutti erano per la novità del colore: e quando, con l’uscita dalla rotativa delle prime copie, l’errore fu notato, non si poteva fermare il mostro che eruttava giornali, proprio perché arrestare la rotativa per variare un titolo a colori (a coloriiii), rifare quel titolo, metterlo in pagina seguendo elaborate tecniche nuove di inchiostratura e riavviare la rotativa stessa avrebbe significato tempi lunghi, tali da far saltare tutti i piani di spedizione. Così nel titolo rimase Melbourne, e amen.
La cosa ci è venuta in mente assistendo, nei giorni scorsi, a riprese televisive di gare ciclistiche in Australia, con la partecipazione anche di pedalatori europei e con una impressionante cornice di pubblico. Da far pensare a cosa accadrebbe se davvero il Tour de France, o anche il Giro d’Italia, decidesse di onorare quel titolo antico del giornale bolognese, partendo da Melbourne o dintorni. Da far anche prevedere, e in tempi brevi, una ministagione ciclistica nell’inverno nostro che è poi l’estate loro, non solo degli australiani ma, per stare a posti dove si pedala, anche dei sudafricani, dei brasiliani, degli argentini… Non è obbligatorio andare nei paesi del sole d’inverno soltanto per allenarsi, come ultimamente non pochi hanno preso a fare. Si possono disputare delle gare, magari pagandosi viaggio e soggiorno con ingaggi e premi: lo fece anche Fausto Coppi a fine 1959, con lui in Alto Volta (ora Burkina Faso) c’erano fra gli altri i francesi Anquetil, Anglade, Geminiani, un circuito facile servì per fare cassa agli organizzatori della trasferta. E non è obbligatorio prendersi la malaria.
Però il ciclismo può buttarsi pure su un’altra nuova o rinnovata geografia, europea ma esotica. Il nuovo spazio potrebbe chiamarsi Inghilterra, anzi Gran Bretagna. I Giochi olimpici londinesi quest’estate registreranno molto ma molto probabilmente grossi successi britannici nel ciclismo su strada (non vi dice niente il cognome Cavendish?) e anche, per non dire soprattutto, nel ciclismo su pista, dove da anni si segue lassù un programma organico per prendere tanto oro a Londra 2012. L’avvento alla grande del ciclismo britannico (quello di Stephen Roche era irlandese, non scordiamolo) sarebbe la vera evoluzione, oltre che un bel po’di rivoluzione. Non bisogna comunque dimenticare che le prime biciclette sono state inglesi oltre che francesi, e che forse la figura più affascinante di pistard della velocità è stata quella di Reginald Harris, inglese soprannominato “sparviero nero”. La seconda guerra mondiale ha aiutato molto il ciclismo di Albione: biciclette al posto di auto, per carenza di benzina, nella vita di tutti i giorni, e siccome lassù non si può vivere senza fare sport, ecco un’abbondanza di corse anche nel pieno del conflitto, però corse a cronometro, per evitare agglomerati di pedalatori facili comode prede degli aerei mitragliatori tedeschi. Il campione del mondo (1965) Tom Simpson, morto di sole e di cognac e di doping scalando nel 1967 il Mont Ventoux in una assolatissima tappa del Tour, è stato insieme la massima espressione e la sintesi più liofilizzata di quel mondo pedalante. Davvero il ciclismo internazionale potrebbe continuare ad essere, ai vertici, europeo, però anche se non soprattutto britannico e non più chiuso nel cerchio antico e usurato di Italia, Francia, Belgio, Spagna e qualche annesso di passaggio nel tempo.
Questo nostro non è un pronostico, è una ricerca di ottimismo, di speranza. È anche un augurio ai Giochi olimpici, che hanno un bisogno ormai disperato di legarsi - comunque, un pochino - alla natura antiqua dello sport, senza cedere, senza cedersi al modernismo dello sport spettacolo, dello sport estremo. Il ciclismo bene in vista sul cartellone dei Giochi sarebbe un soffio di aria buona, vecchia e nuova insieme, per tutto il mondo dello sport. E se poi il Tour o il Giro partissero da Melbourne veramente, e non per un titolo sbagliato di un giornale? Venti ore di aereo per andarci, venti per tornare. Poco tempo in più che per una partenza africana, Algeri o Tunisi o Tripoli o Casablanca, con trasferimento in nave nel periglioso Mediterraneo, e tutta la paura che segue.
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